“Tesoro, nulla può sopravvivere se non muore qualcosa”. Da questa frase, pronunciata da Clark Gable a Marilyn Monroe in The Misfits, prendono le mosse i quattro racconti di Mattia Agnelli che annunciano una nuova stagione di “In Residence”: una serie di “cartoline” che ritraggono personaggi abbandonati a loro stessi, senza possibilità di scelta, nel riverbero amaro di un Midwest che decide per tutti, per dirci che esistono destini peggiori della morte.
Ti infilano una banconota da cento dollari nelle mutande. Butti lo sguardo su Casper e la sua giacca in velluto tutta aderente su un corpo fastidiosamente grasso, che ti fa il solito gesto del tipo Tammie, dolcezza, è il caso di portartelo dentro, fai come ti dice. E allora scendi dalla pedana, afferri per la mano l’uomo e lo accompagni dentro. Non è il primo e non sarà certamente l’ultimo. Ti pagano per questo. L’annuncio diceva cameriera ma va bene uguale. Non prendertela con nessuno, è andata così.
Ti stringi in un cappotto che non ti appartiene, le mani in tasca e la borsetta che penzola dal gomito. Passi davanti a un’automobile che ricorda la tua casa fino a qualche anno fa – i sedili posteriori erano così comodi e c’era sempre qualcuno che ti diceva cose diverse in giornate che non avevano colori. Datti una mossa ragazza e Sei ancora lì e Vedi un po’ di andartene e Fai proprio schifo e I tuoi genitori dove cazzo sono. Quando sentivi la parola genitori ti scappava da ridere.
Non parli mai con nessuno: sei abituata a danzare, gesticolare, ammiccare, compiacere, fare certe cose con la bocca. Queste sono le azioni che riempiono la tua quotidianità, e a dirla tutta forse è una quotidianità migliore rispetto a quella di un tempo.
Quand’eri piccola, in un grande albero dietro casa, c’era il copertone di una ruota legato con una corda, che pendeva da un ramo, e non ci potevi mai giocare come facevano i tuoi coetanei, perché era sempre sporco del sangue di galline che venivano prese per il collo e fracassate contro la gomma.
Entri in un bar, ordini un muffin e una tazza di caffè. Ti siedi. Aspetti.
Due donne, che parlano in tono sommesso e sembrano essere d’accordo su un argomento complicato, sono sedute accanto alla vetrata: due sagome in ombra dalla luce pallida mattutina che entra nel locale e rivela volti indolenti. Una donna di mezza età ti serve la colazione. La sua faccia dà l’impressione di un disegno ricalcato troppe volte: una stratificazione di linee uguali che finiscono per formare un’espressione differente da quella originaria; un viso ormai compromesso.
Sposti lo sguardo e vedi un ragazzo, mentre aspetta che gli sia servita una colazione che per lui non prevede l’accomodarsi né al tavolo né al bancone. Ha le braccia lungo i fianchi e il capo chino. Sembra un colpevole e allo stesso tempo una vittima.
Ti fai una serie di domande sul quel ragazzo, delle quali forse è meglio non conoscere la risposta. Il candore con cui si rivolge alla commessa fa trapelare tutta la sua difficoltà nei rapporti di tutti i giorni – ammesso che ne abbia, di rapporti; il suo è un corteggiamento verso l’inadeguatezza.
Estrai una banconota da cinque dollari e la infili sotto la tazza.
Tiri le tende e ti sdrai sul letto nella tua stanza d’albergo.
Sfili il cappotto e lo getti a terra. Con la punta del piede spingi sui talloni e levi le scarpe. I cuscini enormi, bianchi, eccessivamente morbidi, inghiottiscono la tua faccia e ti lasci sprofondare.
Senti sbattere qualche porta nel corridoio: stanno facendo le pulizie o è la prima gente che se ne va a lavoro; e allora pensi all’inconsolabile tristezza di un uomo che passa le settimane in questo posto, in queste stanze, e magari avrà una famiglia da qualche parte.
Questa moquette color rubino è parte di te. Ricordatelo bene.
Tu che dovresti essere altrove.
Nell’hotel accanto, prossimo alla demolizione, c’è una piscina sul tetto. L’interno è pieno di erbacce che spuntano dal cemento. Quando piove l’acqua nella vasca si fa marrone, e ha formato una linea ormai indelebile che copre per metà i murales sulle pareti.
Vedi la porta aprirsi, piano, e subito dopo il volto di una ragazza. Rimani con lo sguardo fisso su di lei mentre la richiude con fare rispettoso, e un accenno di pentimento.
Ti alzi e cammini fino all’ingresso, apri la porta e vedi che sta per pulire la camera di fronte alla tua.
Le dici di tornare indietro, di non curarsi di te. Rimane sorpresa, non sa che dire. I suoi occhi ti divorano.
Entra nella tua stanza e va dritta a rifare un letto disfatto da tre giorni; il carrello delle pulizie color acquamarina, con secchi di plastica blu e rossi, un sacchetto giallo e altre cianfrusaglie lasciato sulla soglia della porta.
Le osservi il punto vita stretto e le spalle gradevolmente larghe, come se avesse un passato da nuotatrice. Le osservi i polpacci, appena abbozzati, che seguono il flettersi di gambe lunghe e snelle coperte da collant neri semitrasparenti. C’è una sorta di abnegazione nei suoi movimenti, di una matura consapevolezza.
Ti siedi ai piedi del letto.
Le impedisci di fare il suo lavoro in maniera corretta. Si guarda le mani che stringono le lenzuola, sofferma l’attenzione su quel groviglio bianco e ne trova rifugio.
Lascia la presa e si avvicina accanto a te. Rimane in piedi.
Con le mani le tocchi appena i fianchi, guardi su: il suo è uno sguardo severo ma non vuole nient’altro che questo.
Le tue labbra sfiorano le sue, ora che entrambe siete distese.
Si fa un po’ più sotto e ti appoggia la testa sul collo. Non ti ha guardato negli occhi nemmeno per cinque secondi.
Ve ne starete lì, a farvi seppellire da ogni minuto che passa. Verranno a cercarvi e incroceranno i vostri volti orribilmente privi d’amore. Scapperanno, impauriti e indifesi.