“Tesoro, nulla può sopravvivere se non muore qualcosa”. Da questa frase, pronunciata da Clark Gable a Marilyn Monroe in The Misfits, prendono le mosse i quattro racconti di Mattia Agnelli per la rubrica “In Residence, in chiusura oggi con l’ultimo episodio “Per sempre qui”: una serie di “cartoline” che ritraggono personaggi abbandonati a loro stessi, senza possibilità di scelta, nel riverbero amaro di un Midwest che decide per tutti, per dirci che esistono destini peggiori della morte.
Le catenelle di un’altalena senza sellino oscillano e qualche poiana gira in circolo come se non sapesse far altro. La casa, vista da qui, mi fa venire voglia di un pianto lento e silenzioso. Fantasmi che hanno il mio volto, quello di mia madre, il volto di tutti noi. Fantasmi che vivono tra la polvere impietosa che in mezzo a quelle pareti si adagia ovunque, perfino sul cuore.
Tra le mani tengo una carabina, senza poterla usare. I proiettili sono stati comprati ancora del calibro sbagliato; lui non lo fa apposta, è che fallire gli riesce sempre bene.
I miei occhi tendono a chiudersi a fessura: sono stanco o forse voglio solo focalizzare qualcosa di inesistente. C’è una lattina di Pepsi accartocciata, forata e coperta da fanghiglia secca: un fossile.
Mi alzo da un tronco d’albero tagliato in basso e cammino. In lontananza, in un campo d’erbacce, fiamme innocue di un piccolo incendio si sfaldano, come foglie di tè, in un fumo rossiccio che solletica l’ombra delle stelle e si propaga nell’azzurro di un cielo prossimo alla resa.
Calpesto le margherite, qualche fiore giallo di cui nemmeno conosco il nome. Appoggio l’arma contro il basamento in pietra e salgo gli scalini. Sono in veranda e sopra di me un carillon a vento, appeso a un gancio con un fil di ferro, risuona piano.
L’arancione confinato all’orizzonte forma una striscia sottile, che presto svanirà per far spazio a un blu talmente scuro da farmi chinare il capo e pensare a cose tremende. La lanterna insetticida è spenta. Dentro le zanzare sono ormai ridotte a particelle di polvere spiaccicate al vetro, le mosche a pancia in su tutte rinsecchite si accumulano una sull’altra. Non deve funzionare più già da molto tempo, corpi in esubero in un cimitero abbandonato.
Una vettura si sta avvicinando sempre di più, è il pick-up di Leo. È in compagnia della sua ragazza. Scendono e per un po’ si mettono a parlare davanti al paraurti anteriore.
Nicci ricorda un po’ nostra sorella nell’imperturbabilità con cui salta le lezioni per fumarsi l’erba e avere sempre l’ultima parola con una freddezza che minaccia la tua vulnerabilità.
Di nostra sorella non abbiamo notizie da anni. Mangiava le more solamente per mostrarci i denti macchiati di quel viola così intenso; ci faceva venire una grande rabbia, ma alla fine ci divertivamo così tanto che la lasciavamo fare, e i noiosi pomeriggi d’estate, ormai antichi, valeva la pena viverli unicamente per quelle giornate tra le radure ombrose. Ora mi capita di mangiare le more, occasionalmente, ma non hanno nessun sapore.
Mio fratello e Nicci condividono un sentimento comune: il desiderio per un altrove che non si sa bene dove sia o che faccia abbia, ma di sicuro lontano da tutto questo. Fanno delle smorfie, mi hanno visto ma a loro non importa, e a me nemmeno. Smetto di picchiettare i polpastrelli sul bracciolo della poltrona, e premo la pianta del piede contro le assi del pavimento in legno. Mi dondolo un po’: sconcertante provare sollievo per cose del genere alla mia età.
È stata una di quelle giornate spiacevoli che ti fa pensare, che forse forasacchi e lappole su pantaloncini e calzettoni non erano poi così fastidiosi. Una di quelle giornate che ti prende per il colletto e ti fa vedere con una lente d’ingrandimento dove realmente lasciano le impronte le tue scarpe. Da Hobby Lobby è venuto un uomo di mezza età un po’ particolare: una di quelle persone che in posti del genere sembra esserci nata – a lui un destino, senza particolari montagne russe di gioie e sofferenze, è riservato con il più grande degli onori. Una madre, su una bella poltrona, di cui prendersi cura; un’ottima abilità nelle mani per una rispettabile potatura di piante e fiori nel proprio giardino; rare saliere Humpty Dumpty di cui vantarsi con i colleghi archeologi da Mission Mart: una serie di cose che fa andare a letto questa gente con un sorriso di indicibile soddisfazione. Quest’uomo voleva farsi mettere un passe-partout in una cornice decisamente datata, con all’interno una fotografia d’epoca. Durante la procedura mi ha quasi messo le mani addosso, perché sul seno nudo di una certa Louise Brooks ci ho lasciato un po’ troppe impronte.
Pochi giorni fa io e Liz ci siamo visti nel parcheggio di Horner’s. Nel campetto di cemento vicino all’edificio c’era una donna, seduta sul sedile anteriore di un’automobile color tabacco. La portiera era aperta e le gambe sporgevano fuori, accavallate, mentre guardava un bambino fare dei tiri al canestro. Quelle braccia esili quasi non sopportavano il peso di un pallone troppo grande e così virile, e la traiettoria si inarcava debolmente per finire a diversi metri sotto la retina.
La luce dei lampioni non faceva altro che svelare, nei miei occhi, tutto quello per cui non sono pronto, e questo lei lo sapeva bene.
Nella strada di ritorno il mio corpo era privo di consistenza. Deve essere stato quello che in altre circostanze viene chiamato il rifiuto del lutto, e quindi non realizzare un bel niente. Quale sentimento ha prevalso quella notte, e quale persiste tuttora, proprio non lo so. L’unica certezza è che viviamo sotto lo stesso cielo e le stesse stelle. Vediamo lo stesso verde smeraldo dei campi. Il silo color carta da zucchero che se ne sta solo e lontano, come una torre templare, lo vedo dalla mia finestra della camera come lei lo vede dalla sua. Tutto questo è disgustoso e confortante. In un modo o nell’altro i nostri pezzi, alla fine, verranno raccolti tutti insieme.
Guarda cos’hai fatto alla mia Louise, continuava a ripetere.