“Plant Echoes”, seconda mostra di Uriel Orlow presso gli spazi di Laveronica, ci pone innanzi a diverse tematiche, tra cui quella che a prima vista potrebbe sembrare la vexata quaestio riguardo il ruolo della nomenclatura nella definizione del soggetto. Non troviamo però la tesi shakespeariana secondo cui l’ente mantiene la propria essenza qualsiasi nome gli si applichi.
Piuttosto, l’artista si domanda quanto sia il nome conferito a contribuire alla complessità dell’ente, in un gioco di accumulo semantico (ciò che Orlow definisce “archivio latente”) che implica non più una passività, ma un’agency, per dirla con Latour; l’attribuzione di un nome, inoltre, comporta un atto di dominio, soprattutto se l’oggetto neo-battezzato è già in possesso di un titolo.
È così che si è costituita la botanica come la conosciamo oggi (in quanto tassonomia linneiana), fulcro delle ultime ricerche di Orlow elaborate nel corso di una residenza in Sudafrica. Durante il soggiorno l’artista ha avuto modo di analizzare come effettivamente i coloni britannici e olandesi avessero cancellato gli originali nomi indigeni conferiti alle piante autoctone, innestando un loro, personale, sistema di nomenclatura che tutt’oggi corrisponde a quello ufficiale. Da qui il lavoro What Plants Were Called Before They Had A Name (2015 – in corso), presentato nel suggestivo spazio della “grotta” – anfratto naturale interno alla galleria; voci maschili, femminili, cori, recitano i nomi delle piante sudafricane in dieci diverse lingue africane, in una sorta di archivio linguistico non riconosciuto scientificamente. Prima di entrare in questa cavità di sussurri, una vetrinetta sulla destra presenta Echoes (2017), riproduzioni di macchie lasciate dalla linfa su alcuni erbari sudafricani risalenti all’epoca dell’esplorazione coloniale. Sulla sinistra invece è proiettato The Fairest Heritage (2016-17), una serie di diapositive che riprendono una pellicola girata nel 1963, per il cinquantesimo anniversario del Kistenbosch, il giardino botanico nazionale sudafricano. La festa aveva allora coinvolto una cinquantina di botanici (esclusivamente bianchi) in un tour alla scoperta della natura sudafricana. Orlow ha invitato Lindiwe Matshikiza, attrice africana, a interagire con il video d’archivio, in una sovrapposizione tra passato e presente, documentaristica e artificio dal sapore teatrale, che si ritrova anche negli scatti posti alle pareti.
Che una rosa, dunque, continui – seppur con un appellativo diverso – a profumare di rosa poco importa; quello che dovremmo chiederci è in che circostanza questa sia stata chiamata rosa, come era stata definita prima di trovarsi ad essere rosa e come questa stratificazione sia registrata nello statuto stesso di rosa.