Curva Blu è un programma di residenza a Favignana curato da Attilia Fattori Franchini e Marianna Vecellio. Nasce dall’obiettivo di INCURVA — l’associazione culturale fondata da Giulio D’Alì Aula nel 2016 — di sostenere la pratica degli artisti e creare un momento di restituzione partecipata del loro processo creativo alla comunità locale.
Gli Open Studios di Curva Blu sono uno di quei preziosi momenti collettivi: a fine residenza, gli artisti condividono lo spazio-tempo che hanno trascorso su quest’isola dall’affascinante complessità storica, sociale, economica e morfologica. Favignana è stata infatti “uno dei teatri principali della prima Guerra Punica”, così come dello sviluppo industriale del Regno d’Italia, poiché vi ha sede l’Ex-Stabilimento Florio, “luogo storico di lavoro e confronto per uomini e donne, e oggi sede del museo che lo racconta, insieme agli studi di Curva Blu”, spiega D’Alì Aula.
Pensato proprio per consentire “l’espansione di linguaggi e forme di espressione in un luogo ricco di input culturali e geografici”, il formato della residenza lascia la massima libertà agli artisti e diventa un’occasione dove “si annulla il rapporto artista/produzione, e si rimane in contemplazione della propria prassi comprendendo il senso ultimo della pratica”, aggiungono Fattori Franchini e Vecellio in proposito. Per la terza edizione, Lydia Ourahmane, Giulia Cenci, Megan Rooney e Diego Marcon hanno aperto il loro studio ripensandone ciascuno in maniera personale gli spazi e la funzione.
Ourahmane ha seguito un filo rosso che l’ha portata a Trapani e Palermo, usando il suo studio a Favignana come luogo in cui tornare ed elaborare la sua ricerca per poi trasformarlo in un archivio di conclusioni parziali, e dedicarsi a una meta riflessione sulla produzione artistica: “Per l’Open Studio ho voluto condurre tutti in silenzio al Forte di Santa Caterina, che è la prima cosa che ho notato quando stavo approdando sull’isola. Forse è ovvio, dato che è in cima a un monte, ma ne sono stata profondamente attratta dall’inizio. Ci sono andata così spesso in un mese, da sola, in silenzio. La salita è stata una sorta di azione simbolica che racconta le mie settimane a Favignana, una sorta di esercizio di presenza nei confronti di sé stessi e del luogo. Ho passato davvero tanto tempo a meditare e ad ascoltare, un po’ per scelta, perché ho avuto un anno intenso e avevo bisogno di fermarmi a processare certi cambiamenti, e un po’ per forza, poiché non parlavo la lingua”.
Cenci invece ha lavorato “in modo estremamente specifico sui paesaggi scavati e costruiti, le fragili Flora e Fauna, così come sulle realtà socio-economiche complesse e irrisolte peculiari delle Egadi, pensando a come poter restituire l’immagine dell’isola di Favignana oggi”. Il suo studio è diventato un laboratorio dove sviluppare forme che fossero in divenire con i materiali e la conformazione dell’isola, per verificarle successivamente all’esterno. Per il suo Open Studio ha realizzato “una serie di sculture costituite da frammenti di oggetti e superfici di Favignana amalgamati a elementi estranei a essa, che galleggiano come isole artificiali tra le piscine di Punta San Nicola. Questa nuova realtà, aliena, si sovrappone al già sinistro paesaggio: una protuberanza rocciosa che si sviluppa sull’acqua, un tempo utilizzata come cava e per questo caratterizzata da tagli regolari ai quali si contrappongono le formazioni irregolari del paesaggio originario, e alle cui spalle sono stati costruiti il cimitero dell’isola e una centrale elettrica alimentata a carbone”.
Anche Rooney ha utilizzato materiali vari dell’isola ma prendendo in prestito oggetti, gesti, movimenti e usi da pescatori e da donne, che ha poi messo in scena nel suo studio: “Ho realizzato una serie di sculture che definirei ‘donne-sacchi della spazzatura’. Durante le prime settimane ho collezionato oggetti abbandonati qua e là come boe e vecchie cime sbiadite. Ho osservato le donne del quartiere, i loro vestiti leggeri a fiori, la ripetizione nitida, quasi rituale dei loro gesti quotidiani, o le conversazioni dai balconi mentre le campane della chiesa suonavano nell’aria e i cani girovagano di sotto. Mi è sembrato che i balconi diventassero un palcoscenico della vita, come se ci fosse sempre una commedia in atto ogni volta che guardavo in sù. Comunque, un giorno ero in studio e stavo ascoltando di nuovo la testimonianza della Dottoressa Christine Blasey Ford[1]. È stato un giorno difficile. Ho iniziato a riconoscere dei visi e dei corpi tra gli oggetti che avevo collezionato, così sono andata a comprare dei sacchi della spazzatura. Li ho riempiti e dipinti, assemblandoli in gruppi di figure. Alcuni corpi sono volati sui muri dello studio, dove stanno appesi silenziosamente, altri sono rimasti per terra, a riposo o collassati: una sorta di monumento alla memoria che piange la scomparsa di qualcosa d’invisibile”.
Infine, Marcon ha trasformato il suo studio in uno spazio intimo, “un momento di tranquillità e respiro in cui mettere a fuoco alcuni pensieri”. Il suo Open Studio si è svolto in un villaggio turistico dell’isola fallito e oramai abbandonato. “Seduti sui gradoni del teatrino preposto per l’animazione e gli spettacoli, ho letto una bozza di Oh mio cagnetto, una raccolta di filastrocche su cui ho lavorato durante la residenza. Non ho particolarmente empatizzato con l’isola: ho percepito Favignana come un soggetto meraviglioso e autonomo, in qualche modo poco problematico. L’episodio più intenso che ho vissuto è accaduto a Trapani invece. La prima sera ho camminato verso la fine della città al tramonto. Lì tutto cadeva a pezzi e mi è parso bellissimo. Non ho più visto un tramonto sull’isola. In qualche modo il villaggio turistico era l’unico frammento del crepuscolo percepito a Trapani. Mi è sembrato quindi il luogo ideale dove invitarvi per un saluto.”