Lo specchio ardente / DATA n. 16/17 luglio-agosto 1975 di

di 23 Luglio 2019

Il testo che segue è un estratto dal saggio Lo specchio ardente. Appunti teorici sul concetto di “altra creatività” di segno (o gene?) femminile, di Anne Marie Boetti in cui intervista Carla Accardi, Iole de Freitas e Marisa Merz, pubblicato in DATA n. 16/17 luglio-agosto 1975.

Marisa Merz, Senza Titolo (1986). Collezione Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea. © Archivio Merz, Torino.

Quante rose in questa stagione! Hai visto? Che gioia… e mica per niente: per conformità mentale. Quando vedi un fiore, ti piace, lo prendi, sei completa lì. Non vai mica a vedere di trattenerti perché magari ti sciupi oppure non tieni bene i conti … eh! invece quando sto così, mi piace mi piace, ci sono io e mi va via la preoccupazione. Al contrario, quando faccio i piccoli rendiconti ci sto male. Si può anche evitare lo spreco di se stesso, lo sciuparsi, ma con la corazza! ma quando stai senza corazza stai bene. L’altra sera parlavo proprio delle rose, mi uscivano dappertutto, anzi non sapevo più da dove farle uscire. Mi piace quel stato lì, non i rapporti sociali. Tutto un magone sono. Certo anch’io devo fare i conti con i magoni sociali, sì. Ma la mia storia, la mia zona, è quella delle rose.

No, non c’è mai stata la separatezza tra il mio lavoro e la mia vita.

Non è che la rosa sia per me un elemento della natura. E’ un’invenzione della mente. Io le chiamo le fantasie. Tutta la vita ho la testa piena di queste fantasie, sempre, sempre e poi non so, devo ancora vedere tante cose, ho ancora tanto da vedere. Certo, ho anche delle fantasie a partire da idee, da cose astratte che si visualizzano, ma non saprei dirtene una in questo momento. Anche le cose banali, ho sempre tentato di mantenerle su questo piano. Anche in casa. Non è che la rosa mi piace perché è bella: posso anche lavare il bicchiere con lo stesso spirito. Guai se penso che lavarlo è cosa pesante e cretina, perché quello mi riporterebbe a quegli ordini ierarchici. E no! sono tutti gesti nostri, possibili, fatti da noi.

Mi è capitata questa mostra. Mi andava bene perché era da Fabio che conosco bene da tempo. E’ importante per me questo, una persona che mi «riceve», e mi capisce in certi momenti. L’artista è già un ruolo stabilito, come la moglie, il figlio. Ma io non ci sto mica in questi ruoli, ruoli separatori, elenchi… Sì, ti avevo detto che in questa mostra non avevo niente da dire se non: questa è la mia, fate la vostra. E’ vero. Ogni uomo, voglio dire ogni essere umano, non è una cultura? E non dico una cosa individualistica. Dico «mia» mostra, certo. Io sono viva, viva, ma chi me lo dice? Me ne devo accorgere!

Tante cose che non conoscevo … no, le scoperte non mi fanno paura, a me la gioia non fa paura. Per esempio con la cera, ho scoperto la cera con l’alba. I colori, sai i colori attorno a noi, questo sì che mi dà la vertigine, non si riescono mica a vedere come sono, sai. Allora con la cera, non ci sono più i colori. L’alba è cosi «E la cera da sola? cos’è? certo non è più l’alba, e non è la luce … è un ingombro, no? ma la luce passa . La cera la senti trasparente ma pesa : non è come il vetro, è una sensazione di trasparenza, non la vera trasparenza. M’interessa di più. Volevo fare una piscina di là nell’altra stanza. Però c’è il muro e tante cose che io chiamo banali, ma che non ti lasciano fare quel che vuoi. La scodella di sale questo sì, è tutto il mare. Tutto il mare! Il sale trasuda, vedi ogni tanto aggiungo un po’ d’acqua. allora vedi che anche il coccio è trasparente. Perché passa. Allora passa tutto! non è solo una cosa visiva, la trasparenza. Non sono ricerche tecniche le mie, sono delle cose così, fantasiose, mi capitano. E poi dopo scopro la cosa tecnica. Ma se dovessi partire da lì, non lo farei, mi annoierei subito.

Le scarpe della luna. Sì, le scarpette verdi non erano mica messe così a caso sul muro nella galleria di Fabio. Non lo sai la storia della luna? E’ bella. Eravamo a Campo de’ fiori, c’era la luna. Ho pensato: forse dalle finestre dell’ultima stanza la si vedrà, ma da quale delle tre finestre? e quando? Allora metterò le scarpe, e alla finestra dove passerà la luna (se passerà) mi siederò su una sedia, con i piedi così, allungati contro il muro, e guarderò la luna … Poi ci siamo dimenticati, abbiamo lavorato, e poi ho avuto bisogno della scala, ho dovuto attraversare l’ultima sala, e mentre mi giro con la scala … paf! la luna. Allora, capirai. ho preso la sedia, infilato le scarpette, appoggiato le gambe al muro. E allora Mario mi ha attaccata una scarpa, una, cioè con i chiodini, sul muro, dove stava. Quando lui ha finito la luna si era già spostata di tanto … il tempo giusto. E la sera dopo, la seconda. La luna era più alta e si è presentata mezz’ora dopo, poi è sparita in un’altra direzione. Mario mi ha attaccata l’altra scarpa. Non avrei potuto metterle in un posto qualsiasi. Lasciare la sedia no, troppo descrittivo. Le altre due scarpette sono messe in modo più fantasioso, vedi, allargate così, come per dire: guardate sono il gatto dagli stivali, dal passo lungo!

Marisa Merz, Maria, 2011. Materiali vari su carta. 44,5 x 33,5. Courtesy Gladstone Gallery, New York; e Archivio Merz, Torino. © Marisa Merz.

Sì sì, tutte le scarpette che faccio stanno al mio piede. Sai sono anche un po’ estensibili, non una misura precisa. Il tavolino di ferro, dove c’etano la statuina e l’anello di sale, lo trovi misterioso? Ti racconto, è un vassoio, che ho usato per anni dalla parte concava. Lo credevo piccolo. Poi un giorno l’ho rovesciato, ho visto che era grande, un bel tavolino, con gli spigoli svasati. Gli ho fatto fare dei piedi di legno, all’altezza delle mie mani quando ho le braccia stese in avanti come quando portavo il vassoio. Sì, il mio corpo. Dei vestiti che mi facevo, forse ne ho tenuti alcuni. Ma no, non li considero dei miei lavori, voglio dire professionali. Ma come stimoli personali sì. Riguardano il mio corpo come le scarpette, riguardano sopratutto i miei ghiribizzi le mie sicurezze, sai. le intuizioni quando fanno tac! e allora lo faccio proprio. E’ vero, i vestiti che faccio non fanno vedere il mio corpo, mi danno libertà, ci sto dentro e passa l’aria. Altri lavori a misura del mio corpo … l’anello di sale, e l’altezza del filo di rame che corre attorno ad una stanza nella mia mostra, corrispondono alle mie misure, alle mie possibilità. Non ho mai fatto una mostra veramente con il mio corpo. Però ho notato che quando andavo ad una mostra dove non ero invitata come artista, non avevo mica la sensazione di non esserci, andavo lì e dicevo sono io. Mi ricordo anni fa a Berna, alla fine Szeeman s’avvicina e dice: « Marisa, in fondo non è stato giusto per te … » « Ma no, c’ero! » gli ho risposto io . Alla quadriennale di Roma. ci sono stata fino all’ultimo secondo dell’allestimento. perché se non ci stavo, non riuscivo a capire il rapporto. Allora ho fallo così, per capire cosa stavo facendo, anche da Sargentini ci stavo molto, anzi ci abitavo.

Quando andavo a scuola, il momento che non ho mai più dimenticato è stato quando mi hanno insegnato il baco da seta. Pensavo sempre a quello, che da bruco diventava farfalla. E non ho mai più potuto togliermelo dalla testa. Come venivano fuori il filo di seta e la farfalla. Ancora oggi, questa cosa … ma chi lo sa … era quando andavo a scuola. Eppure se ci penso, ora mica sono passati degli anni. Lo penso, lo vedo uguale. E’ fuori tempo. Ieri sera ci pensavo, alle farfalle, d’estate nei campi, è incredibile. Però hai ragione, nel frattempo ho realizzato delle cose e questo è il tempo. Forse il tempo serve a quello, a fare dei lavori e ad arrivare… lì.

Quando Bea era piccola stavo in casa con lei. Allora facevo i lavori con i fogli d’alluminio. Tagliavo e cucivo queste cose (loro si piegano da soli, sai, non c’è sforzatura, hanno le loro possibilità e i loro limiti) C’era un ritmo in tutto questo, e il tempo, tanto tempo. Dunque c’era Beatrice, piccola. Mi chiedeva delle cose, mi alzavo le facevo. Tutto sullo stesso piano, Bea e le cose che cucivo, avevo la stessa disponibilità per tutto. Però diventava un po’ meccanico. Allora mi sono fermata. Seduta su questa poltrona. Due anni seduta, solo per Bea continuavo ad alzarmi. Non facevo più lavori d’arte. Sì, per lei ho sempre continuato. Lei era fantastica, ho imparato tanto da lei e lei niente da me, perché il poco che sapeva era bello. Inventava, faceva. In questi due anni ferma ho voluto vedere il mio sistema nervoso, intero. In tempo brevissimo si può concentrare tutto un tempo lunghissimo. Nei tempi lunghi fai delle scoperte sul sistema nervoso. E poi va a finire che sei fuori tempo! E così sei felice finalmente. Ci sono riuscita sì, a momenti. Ma come struttura portante della vita, sai.

Marisa Merz, Senza Titolo, s.d. Fotografia di Paolo Mussat Sartor. © Archivio Merz, Torino.

Le mie fantasie, quello che scopro, non lo chiamo conoscenza, per me è felicità. Secondo me appena diventa conoscenza, perdo la felicità. D’accordo, non riesco a fare che non diventi conoscenza, ma qualche volta ottengo quell’attimo di felicità. E’ felicità legata al contatto con me stessa e al contatto con il mondo, e al rapporto tra tutti e due.

La trasformazione in conoscenza è quasi simultanea, inevitabile. Non so se la conoscenza contiene la dolorosità. So che è il ripetuto, una cosa che già conosci. Mentre la felicità è una sorpresa, uno stupore, per quel momentino lì, ecco. Ma io ho una testa tremenda guarda, tremenda.

A proposito dei muri, dei chiodi, t’ho detto che mi mettevano in crisi? E’ perché credevo che l’essenzialità bastasse. E non è vero, ho usato il muro, i chiodi. Mentre quelle cose mie avrei voluto farle tenere appese. Ma devo dire che anche piantando un chiodo s’impara qualcosa. Però pensavo di più a delle sospensioni, è vero, forse le farfalle!

Questo lavoro qui, l’ho appena finito, lo chiamo «respiro». Vedi, è come un respirare insieme, no? le file sono due. Questo altro è … così, sai spesso metto le cose in certo modo, qui i bambù, per ragioni pratiche e poi tante volte sulla ragione pratica dopo … cioè poi viene così. Nella borsettina c’è un pezzo di compensato, che avevo lì … invece questa scarpetta è rimasta così portandola via dalla mostra, impigliata nel chiodo dell’altro lavoro. E’ delle scarpette della luna.

Non è che io l’organizzi tanto, il mio primo momento nel lavoro, la mia voglia di fare. E’ come la coperta arrotolata. La guardavo, era lì distesa per terra e subito l’ho «vista» arrotolata. Nemmeno farla tenere arrotolata è stato come un secondo tempo, diciamo più organizzativo. No, c’era una corda lì per terra. E basta. Certo che quel momento lì è fantastico, è totale. Sì, credo che gli uomini organizzano di più le loro intuizioni, cioè sul secondo tempo. Forse le donne si buttano di più, ti senti così felice che vuoi anche farlo condividere subito. Con il lavoro di Mario? ma ora chiudi.

Tornare indietro nel tempo? Ma io vorrei disfare tutto, tutta l’informazione. Per fare che cosa? Per la vita. Per le scoperte libere. Ma adesso, sì, ho fatto questo «respiro», ma sono un po’ così… ma io facendo questo lavoro ho scoperto tante cose.

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