Il 21 settembre 1978 alla mostra Materializzazione del linguaggio1 si svolgono le performance di Patrizia Vicinelli e Giulia Niccolai2. Accanto a opere più propriamente visive, Mirella Bentivoglio, curatrice della mostra3, aveva inserito una sezione di “Performance” che si svolse tra il 20 e il 23 settembre, nei giorni di apertura di quello che fu in Italia il primo punto di incontro di circa ottanta artiste, che usavano linguaggi verbali o visuali, senza barriere. Il linguaggio che rimaterializzava se stesso, che tornava alla fisicità del corpo della voce e della parola, era il tema della mostra: immagini, segni, oggetti che componevano testi eccentrici, performativi, fatti di cose. Per Vicinelli si tratta di performance tratte da parti di Non sempre ricordano e della proiezione Fragmentation d’une vie d’heroïne, per Niccolai di Harry’s Bar e altre poesie4: eroine e l’eroina che si decostruiscono e che distruggono, giochi di parole, ironia e frammenti di discorsi, memoria e libertà, pezzi di mondi che si riassemblano come due donne hanno saputo fare, seppur differentemente. La parola ad un certo punto diventò gesto, immagine e soprattutto mimica e sonorità della voce. Scambiava le sue forme difformi con quelle dell’arte, scavalcava gli ambiti disciplinari solo perché era necessario far muovere il linguaggio oltre tutti i confini: testuali, semiotici, di genere, identitari, tra maschile e femminile, da una prospettiva femminista, prematuramente queer. Difficile dire se si trattasse di arte, di poesia, di teatro o altro. Erano i confini stessi a essere messi a soqquadro da questa infinità di donne artiste (al di là del medium che le identificava) che si facevano spazio tra mode, tendenze, gruppi già istituzionalizzati della sperimentazione. L’anno della mostra è tra l’altro quello della pubblicazione, nel mese di ottobre, di Taci, anzi parla. Diario di una femminista5, che rilancerà alle artiste di molti anni dopo il messaggio dell’identità tra pratiche di autocoscienza e abolizione di ogni “immagine preconcetta femminile”. Il femminismo non era una questione che si concentrava in un periodo storico. Diventava la prospettiva critica alla quale non si sarebbe mai più potuto rinunciare. Tra arte, poesia, scrittura si dispiegava un raggio comune d’azione dove la ricerca di sé e la critica politico-poetica di ogni assoluto codificato, diventava pratica di autocoscienza, rilettura a più voci, dialogo da ritrovare. Ed è su queste sovrapposizioni che vorrei soffermarmi brevemente. Un breve passo indietro è già necessario. Qualche mese prima, a maggio, Patrizia Vicinelli si era trovata in carcere, condannata nel dicembre del 1977 per essere stata trovata, anni prima, in possesso di una quantità (minima) di hashish. La detenzione nel carcere di Rebibbia sarebbe durata sei mesi. Ma il 25 maggio sui quotidiani nazionali italiani fu riportata la notizia di un lavoro teatrale, nato nel carcere romano, che sotto la regia di Vicinelli aveva coinvolto circa ottanta detenute. Cenerentola, titolo del lavoro, fu un lavoro politico, negli anni del femminismo più radicale: testo a più voci, interventi del coro, dialoghi tra donne e con essi decostruzione dei miti, riabilitazione di Cassiopea (nome di una costellazione ma anche madre di Andromeda nella mitologia greca), seppur nei panni di una donna che non ama leggere ma che diventa la “straniera” in un dialogo fecondo6. Divenne il modo di Patrizia Vicinelli di trasformare la detenzione e la rabbia in un testo da agire, fatto di “ballate” attraverso le quali Cenerentola, Cassiopea e le altre, in un rapporto tra donne, presentavano un universo femminile di ricordi, identificazioni, tra da una parte immagini di crudeltà, strazio, abbandono, dall’altra di foreste, viaggi tra mondo reale e mondo ideale che entravano in collisione. Le voci, anche urla, risate, incertezze, dialogavano con il rumore stridente di porte che sbattevano, le voci si accavallavano con la caleidoscopica capacità di Patrizia Vicinelli, già fatta divenire testo in coinVOLT del 19667, di spostare le identità in una scenario frammentato e disperso, spezzando le parole in un gioco di echi che producevano la polifonia di un racconto interiore. Il corpo parlava attraverso un testo che diveniva pratica di autocoscienza, lettura del rimosso, tra più voci che mettevano in dialogo il maschile e il femminile, non perché tutto alla fine sia lo stesso ma perché una nuova forma di identità nasce solo nelle zone di confine, all’interno di un processo di trasformazione in cui è la soggettività che diviene. Per Cenerentola si tratta di sette fasi, le sette Cenerentole che segnano sette passaggi verso la libertà che per Vicinelli è libertà di agire e mai libertà da qualcosa. Vicinelli mette dunque la soggettività in processo, così come negli stessi anni anche Julia Kristeva aveva teorizzato8. Sono anni di “dichiarazioni” politiche e poetiche, da Mirella Bentivoglio (la sua Dichiarazione di poetica), alla stessa Vicinelli, a Kristeva. Nello stesso anno, il 28 febbraio, presso l’UCLA, Large Conference Room, North Campus Facility, Giulia Niccolai tiene invece la conferenza Feminism and Literature. La rivista Tam Tam, fondata da Adriano Spatola nel 1971, (chiude nel 1988), annuncia l’evento nel numero 17-20 dello stesso 1978. La relazione tra femminismo e letteratura per Niccolai è chiaramente più una scommessa che una adesione. Il testo di questa conferenza è andato perduto ma dello stesso anno è il testo Women’s presence in Italian Experimental Poetry pubblicato nel catalogo Oggi poesia domani, relativo all’incontro internazionale di poesia organizzato a Fiuggi nel settembre 1979 da Adriano Spatola con Giovanni Fontana, John McBride e la stessa Giulia Niccolai. «Negli ultimi cinque-sei anni un certo numero di donne e anche di organizzazioni sono divenute coscienti della ingiustizia storicamente sofferta dalle donne considerate opposte agli uomini, in ogni campo delle arti; per cambiare questa situazione, anche solo per rendere il pubblico cosciente che le donne artiste esistono, queste donne artiste, critiche e organizzatrici hanno creato con successo nell’arte uno spazio speciale esclusivamente dedicato alle donne»9. Niccolai si riferiva a Mirella Bentivoglio e alle mostre da lei volute che nel giro di pochi anni avevano portato a un numero veramente ampio di artiste come la stessa mostra Materializzazione del linguaggio aveva dimostrato. Nel testo si sofferma anche su Annalisa Alloatti, Tomaso Binga, Lucia Marcucci, Giovanna Sandri. Nel 1974 Niccolai aveva pubblicato per le edizioni Geiger Poema & Oggetto10 un libro nel quale la scrittura era intesa in senso molto ampio soprattutto perché si scriveva con lettere (alfabetiche) ma anche con spilli, fotografie, disegni. Negli anni Cinquanta è fotografa e nel 1966 pubblica Il grande angolo. Le parole in Niccolai si muovono tra lingue madri diverse (l’italiano del padre, l’inglese della madre), tra giochi di parole, allitterazioni, montaggi verbali plurilinguistici che ironizzano sulle regole troppo cerebrali (anche d’avanguardia). Niccolai inventa così una lingua transgender, senza sesso e genere, che viaggia tra geografie reali e inventate, tra personaggi conosciuti come in Russky Salad Ballads & Webster poems, pubblicato nel 1977 o come nella recente raccolta Frisbees (poesie da lanciare) del 1994. Le parole sono immagini, cercano le immagini che non ci sono perché nessuna parola è ancora mai esistita per dirla. Ma sono anche parole che cercano strade, forme possibili, per identità che sfuggono a ogni chiusura che definisce, colloca e controlla.
È interessante a questo punto notare come tali lingue e ricerche di parole e suoni rivelino un’attenzione per la parola e il linguaggio che mette su uno stesso piano Vicinelli, Niccolai con Bentivoglio, Carla Lonzi e molte altre: la ricerca, nell’arte e nella poesia, da parte di donne, di pratiche di scrittura e soprattutto riscrittura di se stesse, della storia, della memoria individuale e collettiva, da una prospettiva critica che cercava di riportare il linguaggio e la parola alla fisicità del sentire, del corpo, degli affetti. Proprio dal rapporto, all’interno di una rivoluzione che la scrittura stava attraversando, tra modi e ricerche che dall’arte ma anche dalla poesia o dal teatro emergevano negli stessi anni, è possibile capire la specifica svolta che artiste, poetesse e critiche misero in atto, concentrando la loro attenzione sulla parola, la voce, la scrittura di sé. Un differente uso della parola e della scrittura, nacque come riconquista di uno spazio politico e soggettivo, critico e di denuncia. La ricerca di artiste e scrittrici rivoluzionò dall’interno e in maniera radicale non soltanto il linguaggio della poesia o dell’arte, ma le regole o gli stereotipi linguistici all’interno della scrittura, come modo di pensare, di vedere ma anche come costruzione di identità. È in questa “svolta linguistica” che si trovano alcune indicazioni o punti di avvio di una tendenza performativa e concettuale italiana. Poesia, performance, arte coincisero negli intenti (lettura con gesti, coinvolgimento fisico del corpo) o, anche, era il testo che diventava performativo: un testo che non poteva essere soltanto letto ma anche agito, trattato nella sua multivocale e molteplice complessità linguistica, da vedere, ascoltare, intonare, muovere, e attraverso il quale, a partire da come lo avevano concepito le artiste, si faceva strada finalmente l’atto politico e poetico per la costruzione di forme inedite di soggettività.