Partecipazione, contemplazione, interpretazione. Queste sono le esortazioni che emergono dalla lettura di “Opera Aperta”, mostra che accompagna la visita al padiglione del contemporaneo nella nuova edizione di Arte Fiera.
Per Umberto Eco un’opera si può considerare aperta quando il suo contenuto e forma trovano compimento nell’esperienza dello spettatore, tramite un’autonomia esecutiva lasciata dall’autore al proprio fruitore. La curatrice Eva Brioschi estende questa autonomia all’intera mostra, che, riunendo numerose opere dalle collezioni presenti sul territorio, compone un percorso non tematico dove lo spettatore è libero di completare con le proprie associazioni gli intervalli fra le opere. Superato il pavimento incerto di Gianni Colombo (Architettura cagoniometrica, 1981-1985), il percorso offre più una cornice di senso per rileggere i media tradizionali che un’occasione di partecipazione esplicita del pubblico. Così la pittura di paesaggio non è più solo rappresentazione, ma diventa uno strumento da attivare per evadere nei boschi accennati dalle pennellate veloci di Giorgio Morandi (Paesaggio, 1959), o nelle vedute vibranti e geometriche di Salvo (Palme, 2000). I movimenti ondulati delle finestre liquide fotografate da Elisa Sighicelli diventano invece specchi d’acqua in movimento, smossi dal nostro pensiero e dal nostro passaggio che ne scuote delicatamente le morbide forme di raso su cui sono stampate (Riflettente trasparente, 2017). Le opere in mostra diventano così fotogrammi di un film, il cui montaggio porta la nostra firma, ma il suo svolgimento ruota intorno alla scultura scenografica Venusia dal Casanova di Fellini (1976-2010) che, posta al centro dell’esposizione, è ormai orfana di trama e in cerca di una nuova sceneggiatura.
Seppur non riesca a mantenere una presa concreta su tutte le opere in mostra, questa apertura e “outsourcing” del linguaggio curatoriale ha il merito di focalizzare l’attenzione sulla necessità di una partecipazione critica dello spettatore. Come per Eco anche per Oscar Wilde, “è lo spettatore, e non la vita, che l’arte rispecchia realmente”. E così anche la fiera può diventare negli occhi dei suoi fruitori una forma malleabile, capace di offrire una molteplicità di visioni.
Questa interpretazione trova eco negli evidenti sforzi curatoriali portati avanti dal direttore Simone Menegoi e dai suoi collaboratori per migliorare la qualità dell’offerta e per incorniciare la fiera come strumento capace di analizzare le ricerche contemporanee. Tali obiettivi si sono concretizzati nella costruzione di molteplici sezioni tematiche e medium-centriche – in cui la tecnica è sia supporto che contenuto – e a livello più capillare, con la limitazione del numero degli artisti per ogni galleria. Questo invito a una educazione visiva, quando recepito, permette non solo la costruzione di progetti più fruibili ma anche un riscontro collezionistico, come nel caso delle gallerie Martini & Ronchetti e Pinksummer che, nella sezione “Fotografia e immagini in movimento” curata da Fantom, presentano rispettivamente Lisetta Carmi e Luca Trevisani.
La famosa serie I Travestiti (1966-1971) è qui arricchita dalle stampe inedite da diapositive a colori, esposte su una parete che ripete il tono rosato della copertina della pubblicazione originale, mentre viene presentata come opera unica l’intera sequenza in dodici scatti dedicata all’incontro fotografico con Ezra Pound (1966). Trevisani presenta invece Occhi Freddi (2019), stampe ai sali d’argento realizzate impressionando la carta fotosensibile con immagini digitali, veicolate dalla luce del proprio smartphone: nature morte in bianco e nero che, allevate in camera oscura, uniscono alla fisicità della carta baritata la grana digitale dei pixel.
La natura morta ritorna anche nella sezione “Pittura XXI” a cura di Davide Ferri, come soggetto per portare avanti un’auto analisi del proprio Dna materico. Tendendo a un’essenzialità di soggetto e sfondo, i dipinti di Ivan Seal (Monica de Cardenas) creano still life di colore puro, dove figurazione e astrazione tentano una precaria convivenza. Tale soggetto trova una sua traduzione tridimensionale in Tentazione dell’uguaglianza di Matteo Fato (Monitor), dove l’accumulazione degli avanzi di colore a olio, posti su un basamento di tela, riescono a simboleggiare per sineddoche l’intera ricerca del pittore. Si distanziano invece dalla definizione di pittura come vernice su tela le artiste Corinna Gosmaro (The Gallery Apart) e Adelaide Cioni (P420), che traduce con stoffa ricamata su tela molteplici elementi decorativi, vegetali e geometrici, recuperati per esempio dalla storia del costume e dall’archeologia. Essenzialità che ritorna anche nel suo slide show di diapositive graffiate, dipinte e disegnate a mano, un archivio di forme minute, studiate al microscopio tramite l’ingrandimento della proiezione (Ab ovo. Field notes, 2020).
Il riverbero della pittura come medium espanso continua anche nella sezione principale, dove troviamo gli studi di nuvole di Jay Heikes (Federica Schiavo), realizzati sottoponendo le tele a lavaggi chimici, stampe serigrafiche e interventi manuali a olio, mentre Giulia Piscitelli (Fonti), trasforma in immagine un lettino da massaggio consumato dalla pelle dei suoi fruitori. Francesca Ferreri (Alberto Peola) invece, ricomponendo frammenti di ceramiche colorate, ne amplia le possibilità formali per creare tavole di gesso tinto in pasta e ritoccate intuitivamente ad acquerello. Ceramiche dipinte ritornano anche da Umberto di Marino dove il dialogo tra i lavori di Santiago Cucullu, i bronzi di Luca Francesconi e dipinti di Anna Manso crea una composizione da cabinet de curiosités o Wunderkammer contemporaneo.
Nel padiglione del moderno risaltano infine il dialogo intorno alla natura morta fra Morandi, Luigi Ontani e Sissi (Galleria D’Arte Maggiore), l’ampia selezione di tele materiche di Pinot Gallizio (Biasutti & Biasutti) e i lavori su carta di Fabio Mauri (Michela Rizzo), sottolineati dalla cornice della sezione “Focus”: vernici e smalti che, nella loro semplicità compositiva, già racchiudono in potenza la sua ricerca degli Schermi su tela.
Merita infine una menzione all’interno del programma performativo, a cura di Silvia Fanti, la ricerca di Alessandro Bosetti che, raccogliendo e rielaborando frammenti sonori dai dialoghi degli abitanti dei padiglioni, tenta di dare un corpo effimero alle Ombre (2020) della fiera, ovvero le interazioni immateriali che aggiungono e confermano il senso del formato fieristico.
Le immagini performative
Le riflessioni che scaturiscono dalla visita alla mostra “AgainandAgainandAgainand” al MAMbo, curata da Lorenzo Balbi e dedicata all’analisi del loop nel linguaggio contemporaneo, non riguardano però solo il tempo, ma anche lo spazio. Nella loro ripetizione ciclica le immagini – siano esse in movimento, dipinte, o interpretate da attori – espandono infatti la propria presenza fisica, creando un luogo circolare e aperto alle nostre interpretazioni.
Così, gli attori della performance di Ragnar Kjartansson si trovano immersi in una scenografia che, in poche stanze, sintetizza un intero villaggio francese degli anni Cinquanta. In un questo universo finito, i due protagonisti sono intenti a reiterare i singoli gesti e movimenti che li conducono inevitabilmente al proprio incontro carico di aspettative romantiche mai colmate, un’eterna attesa che può trovare sviluppo e soluzione solo nella nostra immaginazione (Bonjour, 2015). Ed Atkins costruisce invece un dispositivo performativo attraverso l’uso sapiente del video, della computer grafica e del Boléro di Ravel, la cui ripetitività crescente sottolinea le numerose torture a cui viene sottoposto il proprio alter ego digitale, costretto a subire ciclicamente smembramenti e vivisezioni per poter superare i controlli di sicurezza di questo aeroporto infernale (Safe Conduct, 2016).
Come ci ricorda anche l’artista Cally Spooner¹, l’Opera Aperta di Umberto Eco (1962) “è una sorta di guida su come mantenere la produzione in uno stato di flusso”, trovando in tale indeterminazione nuova potenzialità di significati. Così nel foyer del Teatro Comunale, su invito di Valentina Vetturi, sette direttori di orchestra si trovano a eseguire senza sosta, strumenti o musicisti una seconda composizione di Ravel. La coreografia muta che ne deriva non è però silenziosa: l’eco dei loro gesti riempie infatti lo spazio di pura interpretazione, mai inerte, mostrando come ogni composizione a spartito sia anch’essa aperta alla traduzione del singolo musicista (Orchestra Studio #3, 2020).
Nella sala d’aspetto della stazione centrale, anche Riccardo Benassi traduce le proprie immagini in oggetto performativo, dandogli corpo attraverso uno schermo di strisce al led, una tenda attraversabile che dona corpo al suo pensiero, fiume che scorre come testo su paesaggi di luce e onde del mare, condividendo con i viaggiatori il suo desiderio di nostalgia (Morestalgia, 2020). Franco Vaccari, nella sua personale “Migrazione del reale” da P420, attiva invece le proprie immagini con un rilevatore di movimento che permette di illuminare, solo quando necessario, le riproduzioni fotografiche su tela dei suoi taccuini di sogni, lasciando il resto della mostra nel buio del proprio inconscio.
Nella prima italiana de La vita nuova (2018), Romeo Castellucci conferma la sua abilità nel creare immagini cariche di potenzialità narrative: all’interno di un parcheggio desolato, figure misteriose si muovono, eseguendo riti segreti, attraverso una nebbia carica di possibilità e un paesaggio senza fine di macchine abbandonate. Tale contenitore aperto perde però parte della sua poesia nella declamazione di un testo sul rapporto fra libertà, arte e artigianato che, chiudendo la scena, ne limita anche il contenuto.
All’interno di “Vestimenti” a Palazzo Bentivoglio, a cura di Antonio Grulli – a fianco della sua produzione scultorea indossabile e alle sue anatomie “esterne” – Sissi attiva le proprie immagini scultoree come cartamodelli per mettere in scena l’intera produzione di un abito, una seconda pelle da regalare al pubblico (Abitare l’altro, 2020).
Infine, in apertura di “Le realtà ordinarie” a Palazzo De’ Toschi, curata da Davide Ferri, il dipinto a tempera di Andrew Grassie (Palazzo De’ Toschi, 2019) interpreta come un attore a tromp-l’œil la parte di una fotografia quotidiana, il ritratto dello spazio espositivo, testimoniando nuovamente il desiderio ancora vivo di voler trasportare con la pittura il reale e il quotidiano verso una nuova dimensione estetica.