Sviluppare un’ampia analisi sull’eredità dell’immaginario sovietico partendo da un nucleo della collezione preesistente: questa è la premessa alla base di “The Missing Planet. Visioni e revisioni dei ‘tempi sovietici’ dalle collezioni del Centro Pecci e altre raccolte”. Una mostra complessa il cui percorso, non lineare, organizza i trent’anni presi in analisi (1990-2020) attraverso le diverse mitologie ed estetiche che hanno convissuto nell’URSS e dopo il suo disfacimento, filtrate tramite la memoria critica degli artisti russi contemporanei.
Il risultato è una cacofonia di suoni, storie e ideologie, tenute assieme dall’allestimento di Can Altay che, con griglie e pannelli di legno, rilegge la semplicità formale delle strategie museografiche sovietiche. Altay, incorniciando con aperture circolari le finestre, riesce inoltre ad avvicinare in maniera sottile l’architettura ovale del museo al set ellittico della stazione spaziale protagonista di Solaris (1972), le cui immagini ci introducono alla rilettura critica dell’avventura spaziale socialista.
Tute spaziali estremamente ottimiste, manifesti e memorabilia dall’Archivio Italo Rota iniziano a illustrare l’utopia dei cosmonauti sovietici tramite le ripercussioni su un design capace di veicolare la fiducia sul futuro tramite un’estetica a metà fra scienza e fantascienza. Una fotografia in bianco e nero della Terra, scattata da un satellite russo all’inizio della competizione spaziale, permette invece a Vladislav Shapovalov di raccontare la Guerra Fredda come una battaglia di immagini, intese come strumenti di conquista e di propaganda ufficiale (Soviet Whole Earth, 2017).
Alle sue immagini d’archivio fanno da contraltare gli scatti crudi di Boris Mikhailov, dove la quotidianità sovietica è immancabilmente segnata dal colore rosso – di bandiere, palazzi, maglioni, acne, labbra o sangue –, simbolo di un’ideologia totalitaria da cui nessun individuo o paesaggio può evadere, se non con una distruzione della propria memoria (Red, 1968-1975).
Così, poco distante, le ruspe riprese da Vahram Aghasyan iniziano a smantellare le rovine della modernità architettonica socialista (Ghost cities, 2007), mentre un coro dissonante di giornalisti americani, filmati da Jonas Mekas, racconta “in diretta” il crollo dell’Unione Sovietica (Lithuania and the Collapse of USSR, 2008).
Solo Deimantas Narkevičius, con un montaggio all’indietro, cerca di ricostruire una statua di Lenin appena abbattuta, tentativo impossibile di ripristinare un’immagine ormai danneggiata e corrosa dal tempo e dalle intemperie (Once in the XX Century, 2004). Gli effetti della transizione sono ormai irreversibili: anche gli oggetti quotidiani diventano vittime e testimoni silenziosi della rivoluzione. La loro inevitabile perdita di senso è però rallentata da Sergei Volkov che, mettendo icone, souvenir, e altri oggetti più comuni sotto formalina, cerca di preservarne la memoria (Magazzino d’arte, 1990).
The Missing Planet è infatti il pianeta che non c’è (più). Un pianeta distante, la cui mancanza è già percepita nello sguardo distaccato del protagonista del film di Andrei Ujică: Sergej Krikalëv, ultimo cosmonauta sovietico che, partito nel 1991 in Unione Sovietica, atterrò nel 1992 in Russia (Out of the present, 1995). Intervistato prima del rientro su ciò che più lo stupisce della rivoluzione, Krikalëv replica così: “Non è facile rispondere. Probabilmente quello che vedo da qui: un attimo fa era notte, e adesso c’è luce”.