Le falesie, con le loro maestose pareti rocciose a picco sul mare, formano un tipo di paesaggio che ben si presta a soddisfare una certa visione romantica e idealizzata di ciò che chiamiamo natura. È un paesaggio che potremmo definire ad alto impatto emotivo. Possiamo provare a immaginare quali sensazioni proveremmo o cosa ci capiterebbe di pensare se ci affacciassimo dal picco di un’alta scogliera – probabilmente sarebbe difficile evitare di cadere in una serie di cliché sulla potenza e la bellezza di una natura incontaminata e in definitiva utopica. Ma quali sono i paradigmi di pensiero che condizionano e organizzano il nostro modo di osservare l’ambiente che ci circonda? Qual è il posizionamento e la prospettiva che, più o meno coscientemente, adottiamo? “A View from the Cliff”, la mostra personale di Anouk Chambaz ospitata da BALENO, a Roma, solleva questo tipo di interrogativi, presentando per la prima volta al pubblico l’omonimo cortometraggio realizzato dall’artista e regista svizzera presso la scogliera di Étretat, in Normandia, tra il 2017 e l’estate del 2020.
Entrando nello spazio espositivo il visitatore è accolto da due cianotipie raffiguranti delle vedute di un mare aperto: si tratta di due fotogrammi che l’artista ha estratto dal girato del film e sviluppato fuori dalla camera oscura, esponendoli direttamente alla luce naturale. Le leggere imperfezioni della superficie fotografica conferiscono una tenue matericità alle immagini, che risultano lievemente sbiadite e come velate da una patina di lontananza, che le riconduce alla dimensione del ricordo. L’atmosfera sospesa evocata da questi lavori avvolge anche la sala in cui è proiettato il film A View from the Cliff, che documenta con toni delicati e poetici alcuni stralci della vita che ogni giorno anima il tratto di costa dove sorge Étretat, già meta e ispirazione di numerosi artisti nei secoli passati e oggi popolare località di attrazione turistica. Lo sguardo di Chambaz intesse una narrazione del luogo posata e contemplativa, fatta di dettagli, attese, suoni e silenzi. Poche parole pronunciate da alcune voci fuori campo accompagnano lo spettatore in una esplorazione mentale di vaste ampiezze temporali: dalle memorie di un passato preistorico depositatesi nella roccia calcarea delle falesie, verso un futuro a venire, dove l’esistenza dell’umanità resta ancora da immaginare.
“Penso che sarebbe troppo antropocentrico pensare che la fine dell’uomo equivalga alla fine del mondo”, afferma Gérald Sinclair, dottorando in filosofia contemporanea presso l’università di Losanna, rispondendo a una domanda dell’artista. La sua intervista e quelle con altri studiosi sono state raccolte in una piccola pubblicazione, distribuita gratuitamente e consultabile in una reading room dedicata. Queste conversazioni moltiplicano e approfondiscono le implicazioni delle diverse tematiche toccate dal film, quali il rapporto tra l’essere umano e l’ambiente, le trasformazioni della biosfera, la scala dei tempi geologici e i significati del concetto di Antropocene – argomenti urgenti e complessi, che nella sua totalità questa mostra riesce ad attraversare senza perdere una nota di leggerezza e senza cadere in alcuna ingenuità.
Fornendo molti materiali e spunti di riflessione, Chambaz ci invita a decentrare il nostro punto di vista di esseri umani e a moltiplicare le prospettive di osservazione, per riscoprire le interrelazioni che ci legano al pianeta che abitiamo, e alle sue diverse forme di vita, animali, vegetali, minerali. Come sottolineano le parole dell’artista, di fronte alla crisi ecologica “il tema della coabitazione è la giusta parola chiave, invece che pensare alla sopravvivenza”.