Reporting From The Front / La Biennale di Venezia 2016 – Architettura

6 Luglio 2016

Il tema della 15esima Mostra Internazionale di Architettura della Biennale di Venezia, “Reporting from the Front” curata da Alejandro Aravena, è il ruolo dell’architettura vis-à-vis la società civile – in primo luogo, in relazione alle condizioni di vita di migranti e sfollati di guerra, alle conseguenze del riscalamento climatico, all’urbanizzazione del mondo, al cambiamento strutturale dell’economia globale.

“Making Heimat. Germany, Arrival Country”, la mostra nel padiglione tedesco, è uno dei suoi punti di forza. Per alludere manifestamente all’apertura dei confini e all’accoglienza di profughi e migranti, il comitato di curatori del padiglione tedesco ha fatto rimuovere parte delle pareti del grande edificio storico che ospita l’installazione creando quattro nuove aperture. Elena Schuetz, Julian Schubert e Leonard Streich, il cui studio Something Fantastic ha sede a Berlino, sono specializzati nella progettazione di spazi di coabitazione che riflettano i cambiamenti urbani. Insieme al curatore Oliver Elser, ad Anna Scheuermann, coordinatrice del progetto ed al giornalista Doug Saunders, la giovane architetta e i suoi due colleghi hanno voluto presentare una sorta di catalogo delle condizioni necessarie alla formazione di quartieri e comunità dove i migranti non debbano vivere come ospiti temporanei ma possano dirsi cittadini e cittadine. Le lezioni derivate dal libro di Saunders Arrival City: How the Largest Migration in History is Reshaping our World (2011), sono chiare: i prerequisiti fondamentali per l’integrazione sono abitazioni di qualità relativamente poco costose, la piena occupazione, l’accesso a piccoli esercizi commerciali e ai trasporti pubblici, l’esistenza di altre reti di immigrati e un atteggiamento tollerante da parte della municipalità che si estenda innanzitutto all’accettazione di alcune pratiche informali.

Molti progetti affrontano il tema della carenza di alloggi e del degrado urbano. Degni di nota sono il lavoro di ricerca compiuto da Inês Lobo e dal suo studio per la realizzazione della “Moschea di Mouraria” a Lisbona e quello dell’architetta Anupama Kundoo, la cui pratica in India, si prefigge di progettare abitazioni che risultino confortevoli e belle agli occhi dei loro abitanti e che siano poco costose da edificare. Nel laboratorio “Life Afterlife” condotto con gli studenti della facoltà di architettura di Venezia, Kundoo ha cercato soluzioni pratiche per il riutilizzo dei rifiuti e degli scarti urbani e industriali, compresi quelli prodotti dalla stessa Biennale.

Le artiste Hannah Quinlan e Rosie Hastings si occupano di “gentrification” – il termine fu coniato dalla sociologa Ruth Glass negli anni sessanta – ovvero il processo di trasformazione di un quartiere cittadino abitato dalla classe lavoratrice in una zona d’elezione per la più ricca classe media e le sue conseguenze sulla vita delle persone più vulnerabili. I loro progetto @Gaybar”, in collaborazione con Daata Edition e Zuecca Projects, si ripropone di “rimaterializzare” i locali gay storici visti come contenitori per pratiche e teorizzazioni queer. L’installazione, ospitata al piano terra del Bauer Hotel, immerge gli spettatori nell’atmosfera acustica e visuale tipica di alcuni locali gay, ora vuoti e semi-abbandonati.

La riflessione sugli spazi pubblici e di condivisione è un’altro tema importante della Biennale. “From the Edge”, curata da Amelia Holliday e Isabelle Tolande e dall’urbanista Michelle Tabet in collaborazione con l’Australian Institute of Architects, racconta il ruolo delle piscine comunali, molte delle quali sono oggi minacciate da tagli finanziari. In mancanza di altri spazi di vita civica, queste “oasi di piacere quotidiano“ sono una parte costituente della vita sociale e culturale del continente australiano, necessarie al formarsi di identità personali e politiche.

Nel padiglione brasiliano e altrove nella mostra principale si possono inseguire le tracce di Lina Bo Bardi – l’eleganza, bellezza e generosità dei suoi progetti pubblici come delle abitazioni private. La lungimirante architetta di origini italiane sperimentò l’accostamento di tecniche costruttive tradizionali con il linguaggio modernista del vetro e del cemento armato in Brasile, paese in cui visse dal 1946 fino alla sua morte nel 1992. L’elegante casa che progettò per Valeria P. Cirell a San Paolo (1958) ha ben sostenuto le durezze del clima tropicale grazie alle sue spesse pareti in mattoni uniti da travi di legno. I suoi grandi spazi multiuso – il bellissimo Museu de Arte de São Paulo (MASP) ne è un esempio – sono anche luoghi di sosta, gioco e vita sociale. Il forte contenuto sociale di molti progetti in mostra alla Biennale mi ha ricordato l’installazione video “Dammi i Colori“ (2003), il tributo dell’artista Anri Sala al lavoro del suo amico Edi Rama, ex sindaco di Tirana e Primo Ministro della Repubblica d’Albania dal 2013, in mostra al New Museum di New York la primavera scorsa. Con la forza semplice dei sui interventi, Rama, tentò di trasformare Tirana da una città dove si fosse costrette a vivere in una in cui si volesse farlo.

Le buone intenzioni che lastricano questa Biennale rendono le sue mancanze tanto più sorprendenti. Un esempio su tutti: nel primo evento pubblico, il curatore Alejandro Aravena ha raggruppato una tavola rotonda di soli uomini, architetti affermati di mezz’età provenienti da paesi del nord del mondo o ivi attivi professionalmente. Sorprende che nessuna persona giovane, nessuna donna, che nessun professionista proveniente dal sud del mondo siano stati invitati come relatori e relatrici. Come spiegare una tale ipocrisia quando si sono volute criticare con forza le storture strutturali e i pregiudizi del sistema dell’architettura globalizzata? Meglio allora ricordare lo splendido “Plan Selva” peruviano, un progetto educativo nella regione Amazzonica, o ancora, soffermarsi ad evocare la convinzione incrollabile di Lina Bo Bardi quando affermava che “lo spirito dell’architettura moderna” deve essere guidato da un senso di “amore per l’umanità”.

 

di Francesca Tarocco

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