Antares è la stella più luminosa della costellazione dello Scorpione, riconoscibile dalla luce rosso arancio che emette e che la differenzia dalle sue compagne. Nella mostra di Diego Gualandris “Antares” è anche il nome di una discoteca di Albino – chiusa quando l’artista aveva undici anni – conosciuta solo attraverso le parole del fratello maggiore. Sia la stella che la discoteca sono luoghi irraggiungibili. Essi vivono personificati e pensanti in una delle novelle con cui l’artista accompagna la mostra, che sostituisce il consueto comunicato stampa, dipingendo con le parole, prima ancora che col pennello, le atmosfere fantastiche, oniriche, ironiche e assurde che costellano il suo l’immaginario e le sue tele. Già nel 2018 Gualandris aveva pubblicato per Altalena Fiabette, una raccolta di favole scritte originariamente per la sorella minore, che sottolineavano il legame indispensabile tra parola e immagine per un’immersione completa nei suoi universi pittorici. Di qui anche i titoli fantasiosi e iconici delle sue opere: Metis, Samberrüt, Gaele, Male, 4 Miliardi, Pesḱha, AWA (Antares Wind Analiser) (tutti presenti in mostra).
Una pittura esplosa, realizzata solitamente a partire da un soggetto o da una scena realistica, su cui l’artista va a esagerare i toni, i colori, i dettagli fino a farli scomparire inghiottiti dalla successione degli strati che generano forme aggrovigliate e spumose evocanti animali mostruosi, scenari fantastici, esseri umani al limite del riconoscibile.
Scriveva Caterina Molteni sulle pagine di Flash Art “la pittura di Gualandris riflette un immaginario ricco di riferimenti iconografici provenienti da una dimensione culturale vernacolare fatta di racconti popolari, narrazioni orali tramandate tra generazioni e pratiche religiose al confine con il pagano.”
Per questa mostra, come per il nucleo di lavori esposti attualmente alla XVII Quadriennale di Roma, Gualandris si serve di un’unica immensa tela (grande sette metri) che dipinge estesamente e convulsamente, come si trattasse della fotografia di un’esplosione stellare abitata da esseri biomorfi. Ci torna in mente la pittura estensibile della Caverna dell’antimateriadi Pinot Gallizio (1959) dalla cui temperie avanguardistica Gualandris si allontana rileggendo il mezzo pittorico in maniera personale: sceglie infatti con intenzionalità le porzioni di campo che una volta ritagliate e rifinite diventeranno il quadro compiuto, un pezzo sfrontatamente unico cui non interessa affatto la denuncia alla serialità celebrata invece dalla pittura politico-situazionista.
L’olio, particolarmente opaco, in alcuni punti viene steso trascinando pezzi di stoffa (una canottiera!) a mo’ di pennello. L’impiego di strumenti alternativi a quelli convenzionali (si pensi ai peluche o talvolta alle persone, Yves Klein insegna) producono impronte, velature e stratificazioni inedite determinando una costante nella pittura di Gualandris. Sensualità, seduzione, erotismo sono elementi ostinatamente presenti sebbene non espliciti sulle sue superfici: attraverso il colore e le forme spesso sinuose l’artista produce indiscutibili sensazioni tattili al di là di ogni apparenza fisica.