Quando ci sentiamo al telefono, Francis Alÿs è appena tornato da Hong Kong, dove si è inaugurata una sua personale a Tai Kwun. Ma la nostra chiacchierata ci riporta con la mente a uno dei paesi in cui l’artista ha più collaborato sin dal 2016, l’Iraq e, in particolare, a Sandlines. The Story of History (2019, realizzato con Julien Devaux). Film o docufictionsulla storia dell’Iraq dell’ultimo secolo, spazia dal 1916 – anno dell’accordo franco-britannico Sykes-Picot con cui i due Paesi si spartiscono segretamente l’influenza sul Medio Oriente – al 2016 con il controllo militare dello Stato Islamico, passando per Saddam Hussein. Protagonisti sono i bambini di Nerkzlia – un recondito villaggio vicino Mosul – i quali, come apprendiamo sin dalla prima scena, non hanno mai sentito parlare dell’Iraq. I confini del loro villaggio coincidono con quelli del mondo conosciuto.
Presentato al Sundance Film Festival nel 2019 poi all’International Film Festival di Rotterdam, è ora programmato nella XIII edizione de Lo Schermo dell’arte di Firenze. Settimo progetto – tra mostre, video e workshop – che Alÿs realizza in questo paese.
Riccardo Venturi: Per cominciare, ti chiedo di rivenire sulla genesi di Sandlines.
Francis Alÿs: Sono stato invitato dalla Fondazione Rya nel 2016 per realizzare un progetto con dei bambini in un campo per rifugiati. All’epoca l’Iraq era sotto il califfato islamico. Presto mi sono accorto che la situazione era più complessa di quanto credessi e il mio rapporto con l’Iraq si è evoluto nel tempo. Ho trascorso i primi due-tre anni da documentarista, con l’intento di realizzare un corto-metraggio sui giochi dei bambini. Solo in seguito da osservatore quale ero ho assunto un ruolo, per così dire, pro-attivo; un passaggio avvenuto gradualmente, attraverso dei micro-eventi, delle micro-finzioni che hanno fatto evolvere la situazione. Diventava possibile lavorare su quella finzione storica che diventerà Sandlines, o meglio su dei fatti storici con un ampio margine d’improvvisazione o su una storia aperta all’interpretazione.
Retrospettivamente, a interessarmi sono più i personaggi del film – come l’Inglese o il Francese – che l’azione in sé, il modo in cui i bambini sono entrati nel ruolo delle figure storiche e si sono appropriati degli episodi storici, determinando di fatto l’azione.
Il progetto nasce in quanto serie di brevi coreografie, soprattutto quella legata agli episodi del 1916 tra francesi e inglesi. Mi sono poi reso conto che andava raccontato anche quanto accade prima e dopo questi eventi. Così ho finito per realizzare un lungo-metraggio, formato per me nuovo; in genere metto in atto una situazione e, in seguito, mi limito a registrare la reazione dei protagonisti. In questo caso, invece, dovevo trovare un modo per concatenare gli episodi; è stata una sorpresa accorgermi che il film stava in piedi e teneva per 61 minuti, raccordando gli episodi isolati in modo che risultassero coerenti e coesi per gli spettatori. E stiamo parlando di un soggetto che poteva risolversi in una ripetizione tragica di eventi accaduti nel corso del secolo scorso in Iraq. Alla fine, si è trattato per me di un nuovo modo d’impegnarmi in quello che considero un viaggio nel tempo.
RV: Due sembrano essere i protagonisti del film: da una parte il deserto, dall’altra i bambini e gli animali.
FA: In effetti si trattava di alternare due momenti opposti: da una parte, l’atemporalità del deserto e dei grandi paesaggi o quello che chiamavamo tra noi l’“effetto cartolina”; dall’altra parte, eventi storici molto puntuali e precisi. Il primo ha una natura documentaria, il secondo si lega alla finzione storica, sebbene non in senso rigoroso, perché i bambini improvvisano parecchio dando un aspetto ludico al corso degli eventi. Giocavo così, a mia volta, con il doppio senso del termine “jouer” che, in francese, indica tanto il gioco quanto la recitazione al cinema o al teatro.
I bambini sono fatti così, c’è poco da fare: se si divertono si va lontano, ma se si annoiano non esitano a boicottare la sceneggiatura e a quel punto sono guai per il regista! Bisogna adottare il loro stile di vita. Per i bambini si tratta di un fenomeno naturale: solo quando si abituano alla nostra presenza abbassano le difese e instaurano con noi un rapporto di gioco. In Iraq ci sono voluti diversi giorni per abituarci gli uni agli altri e per dialogare. Oddio, dialogare a modo nostro, perché io parlavo in spagnolo, francese e inglese mentre loro mi rispondevano in arabo, di cui conosco solo qualche parola. Rivedendo il making of del film mi ha sorpreso che potevamo andare avanti a lungo a conversare in questo modo, ognuno nella sua lingua.
RV: Come sei riuscito a dare loro indicazioni sulle scene da girare?
FA: Spesso comunicavamo attraverso i disegni. Il disegno è diventato un mezzo di conversazione.
RV: Il disegno come scrittura! A proposito, fino a che punto le riprese di Sandlines seguono uno storyboard?
FA: In realtà di Sandlines esistono due sceneggiature che corrispondono a due momenti diversi delle riprese. La prima raccoglie scene che ho disegnato in gran parte sul posto, giorno dopo giorno, mentre giravamo. Così si è costituito lo storyboard: una serie di disegni che mostravo ai bambini e che rendeva più facile per loro seguire lo svolgimento dell’azione, sperando che non si perdessero nelle loro peregrinazioni!
La seconda sceneggiatura è stata realizzata quando avevamo già una base nutrita di immagini e non mancava altro che riempire le lacune, creare dei raccordi con le scene che avevamo girato cinque mesi prima. Quando siamo tornati in Iraq la prima cosa che abbiamo fatto è stata organizzare una proiezione pubblica di quanto avevamo girato fino ad allora nel villaggio –chiamarlo villaggio, per inciso, è un azzardo, perché si tratta in realtà di sette famiglie che vivono insieme! La cosa straordinaria è che, dopo la proiezione, anche le bambine avevano voglia di partecipare, cosa rara nella cultura islamica. Le bambine erano presenti anche nelle prime riprese ma solo come narratrici, mentre il loro coinvolgimento successivo ha mutato la struttura e il sapore di una storia i cui protagonisti sono perlopiù maschili.
RV: La partecipazione dei bambini nella storia dell’Iraq mi fa pensare a un tuo lavoro precedente, Color Matching, presentato nel padiglione iracheno della 57a Biennale di Venezia nel 2017. Nell’ottobre-novembre 2016 trascorri nove giorni con l’esercito curdo o Peshmerga sulla linea di fronte di Mosul, mentre cercano di liberare la città dai guerriglieri islamisti…
FA: In Color Matching m’interrogavo sul ruolo dell’artista in quanto testimone diretto degli eventi, questo era il punto. Vivevo gli eventi, reagivo alla storia senza comprendere o senza tener per forza conto del quadro generale della situazione. Accettavo la fragilità della posizione in cui mi trovavo, rifiutandomi di interpretare ad ogni costo gli eventi. Così con la mia tavolozza mi sforzavo di riprodurre la scena che avevo davanti. Mi sforzavo, in altri termini, di coincidere con il momento che stavo vivendo. L’intenzione era quella di giustificare in qualche modo la mia presenza, quella di un artista o di un parassita nei confronti del dispiegamento di forze militari in mezzo alle quali mi trovavo.
RV: Accennavi prima al gioco – chiave di volta di Sandlines – una sorta di Kriegspiel plasmato dalle mani dei bambini, e che torna nella tua mostra recente “Children’s Games” all’Eye Film Museum di Amsterdam.
FA: Quello che m’interessa del gioco è che si tratta di un gesto universale. Se prendiamo ad esempio il gioco della campana, ci accorgiamo che esiste ovunque sotto forme differenti, sebbene la meccanica resti la stessa, nello specifico una sorta di viaggio di redenzione. Sin dal 1999 ho cominciato a filmare i giochi dei bambini: per me è diventato un ingresso privilegiato all’interno di una cultura che non conosco, un modo di stabilire un contatto con il luogo, di familiarizzare coi codici locali, che colgo anche dal modo in cui i bambini reagiscono alla presenza della telecamera. È un modo di rompere il ghiaccio, cui possono seguire progetti più strutturati, come è stato il caso di Sandlines.
Dei giochi dei bambini mi piace la meccanica, il fatto che vi siano delle regole non scritte e non dette, che vi sia una logica tacita, implicita ma condivisa, e che non ci sia bisogno di esplicitare. Tuttavia, se la trasgredisci, i bambini te lo fanno subito notare puntandoti contro il dito. Questo aspetto mi ha molto coinvolto in passato, quando ero io il protagonista dei video che realizzavo. Adesso m’interessa soprattutto passare il testimone ai bambini, in virtù della spontaneità e della naturalezza che hanno nel recitare e nello stabilire un rapporto di complicità. Davanti ai nostri occhi si spalanca uno spettacolo! Avrei difficoltà a filmare e dirigere degli adulti. Penso in particolare al bambino che in Sandlines recita due personaggi: Saddam Hussein e il re Faisal: era magistrale la nonchalance e l’abilità con cui passava da un ruolo all’altro appena cambiava costume.
RV: In Sandlines i bambini hanno l’aria di divertirsi ma, allo stesso tempo, sono coinvolti anima e corpo nella messinscena. Si muovono su un filo sottile tra la dimensione ludica e i fatti più tragici della loro storia, perché persino le filastrocche raccontano storie di violenza e di colonialismo.
FA: I bambini che ho incontrato sono dei piccoli adulti. Vanno a scuola due ore al giorno la mattina e passano il resto della giornata in montagna a pascolare le capre, e quando rincasano il pomeriggio non ne manca una! Vivono in una comunità che richiede loro dei compiti da adulti, di modo che il loro aspetto infantile non duri così a lungo come, in genere, nelle nostre società. È questo aspetto, credo, che in Sandlines fa la magia dell’interpretazione e la rende credibile: sotto ai nostri occhi abbiamo degli adulti in miniatura. La loro comunità inoltre costituisce un microcosmo protetto per quanto non siano distanti da Mosul; il deserto e la montagna li isola e li risparmia dall’occupazione dell’ISIS e da altri eventi tragici della storia irachena.
RV: Eccoci infine giunti al deserto, non una semplice location ma un vero e proprio topos – ovvero un luogo e un motivo – di tutta la tua produzione, soprattutto quando un confine si materializza sulla sua superficie farinosa. C’è il deserto e ci sono le linee; o meglio, c’era una volta il deserto e poi vennero le linee: così mi viene da riassumere Sandlines.
FA: Per me il deserto è una tela, un canovaccio su cui si possono disegnare degli eventi, delle piccole tragedie, che basta un colpo di vento per spazzare via. Il deserto offre uno spazio grafico su cui si può tracciare di tutto. Questo è il suo aspetto atemporale: un luogo in cui gli esseri umani si connettono tra loro in un modo che definirei animale.
Ogni mio progetto è una risposta a una situazione immediata e precisa. Se funziona, il risultato finale deve poter essere colto da chi appartiene a un’altra cultura: chiunque deve poter stabilire un contatto con questo spazio anche se ne ignora la storia specifica. Ora, il deserto si presta bene a incarnare questo carattere universale – una vastità che apre la lettura e permette di guardare altrove.
Mi sono imbattuto in questo deserto e in questo villaggio per caso e mi sono subito detto che qui c’era qualcosa da fare. Così dopo essere riuscito a guadagnarmi la fiducia dei bambini ho cominciato a filmare due o tre ore al giorno – è stato un processo spontaneo. Vestendo i panni dell’istigatore del progetto, mi chiedevo se sarei riuscito a rendere gli eventi storici che volevo rappresentare. In conclusione, è così che si è elaborata la storia: lasciando che fossero i bambini a indicare una direzione – e forse una via d’uscita – possibile.