Gioco e devozione in Wayne Koestenbaum di

di 20 Novembre 2020

“Tell me stories!” è una rubrica sulla scrittura, a cura di Manuela Pacella. Uno spazio in cui testi di e su diversi autori indagano la scrittura d’arte, sperimentale, interdisciplinare, creativa e non.

Leggere Wayne Koestenbaum significa addentrarsi nell’erotismo della comunità, dei baci in bocca ai tuoi collaboratori, dell’eccitazione che la letteratura può suscitare, un’analisi che include corpo e cuore e tutti gli effluvi tremanti che i piaceri intellettuali sono in grado di produrre e provocare. Entrare nel mondo di Wayne Koestenbaum significa farsi travolgere dall’energia e più in generale dall’eccitazione. Nel suo testo “On Frank O’Hara’s Excitement”, Koestenbaum scrive di voler celebrare “la devozione [di O’Hara] al puro stato di eccitazione” 1. Ma questo è anche lo stato di Koestenbaum: una eccitazione, una devozione quasi religiosa nei riguardi delle cose che ama, e dell’indagine approfondita, seria, ma forse soprattutto giocosa di queste cose. Se in un lontano futuro Koestenbaum dovesse essere ricordato per una sola cosa (anche se sono certa così di sottovalutarlo), mi piace pensare che sarebbe per aver riportato nella critica americana il gioco, la disponibilità e volontà di considerare la sorpresa e la gioia altrettanto importanti per il lavoro del critico del rigore o dell’esattezza, che pure non mancano.

Wayne Koestenbaum, Figure It Out, 2020. Edito da Soft Skull Press, Berkeley, California.

In “No More Tasks”, parte di Figure It Out, scrive: “Dobbiamo giocare con il cibo; giocare con i materiali verbali che costruiscono il nostro mondo, dobbiamo giocare con noi stessi. Producendo linguaggio, ci masturbiamo, mangiamo, rigurgitiamo, ricerchiamo, dimostriamo, espelliamo: con ciò che è stato espulso ritappezziamo le nostre pareti corporee, e questa carta da parati è complessa, sporca e potenzialmente asemica: graffi non significanti, privi di un sistema linguistico che li sostenga, graffi che chiamiamo parole concordando tutti insieme che questo graffio significa masturbare, quello significa fica, questo diatomaceo, quest’altro maschere” 2. Koestenbaum vuole che impariamo, e che impariamo da lui, ma vuole anche che ci spingiamo oltre, che guardiamo al di là di tutto ciò che la scrittura ci apre, al mistero che contiene.

Scrivere del lavoro di Wayne Koestenbaum è piuttosto difficile, proprio perché è così variegato e prolifico, e ciò non vale solo all’interno del medium della scrittura, ma si espande all’esterno, nella pittura, nel collage, nella musica, nella performance. Ha scritto diciannove libri: critica letteraria, poesia, romanzi. Non miro a considerarli tutti in questo pezzo, e anche se ho letto molti dei suoi testi, non li ho letti tutti… anch’io ho bisogno di tenermi qualcosa che sia da aspettare con ansia in questi tempi bui. In “Heidegger’s Mistress”, scrive: “Sto cercando di capire perché—o come—o se—sono diventato un intellettuale” 3. Oh, ma certo che lo sei. Koestenbaum è, a suo modo, l’intellettuale modello, sempre curioso, pronto a captare dettagli che pochi altri notano, a trasformare il modo in cui vediamo le cose che abbiamo sempre considerato banali.

Wayne Koestenbaum fluttua dentro e fuori dai suoi ruoli artistici come un foulard di seta, come una diva, come Elizabeth Taylor. Per essere chiari, questo testo è stato scritto ascoltando al massimo volume Anna Moffo, una delle principali ossessioni di Koestenbaum, mentre anche la sua voce fluttua dentro e fuori. Mettetela su adesso. Leggere Koestenbaum significa interpretare la scrittura di prosa accademica come esercizio lirico. Accogliere una poesia lirica del corpo, del movimento, dell’evoluzione e devoluzione. La grazia con cui Wayne (se posso permettermi) passa dalla poesia alla narrativa alla critica e viceversa può solo essere descritta come ammirevole. E ovviamente tutto ciò è accompagnato dalla pratica nell’arte visiva, nella performance e nel suono del pianoforte. Lo ammiro tanto, vorrei essere come lui, avere una briciola del suo rigore. I suoi metodi richiamano una citazione di Autoritratto di Carla Lonzi:

Consagra: Io credo nella storia che…per me, l’artista è quello che…è l’uomo più impressionato di tutti dal fatto che…che ha un corpo che produce della cacca, ecco. E, allora, vuole sublimare4

È una citazione strana e parte di una conversazione sugli escrementi che prosegue per un certo tempo. Mi ricorda Koestenbaum perché lui non ha intenzione di sublimare i suoi comportamenti, perché sa che possiamo ancora ottenere qualcosa qua sotto, dalla merda e tutto il resto. E da questo punto di vista è molto più vicino alla interpretazione di Carla Lonzi, alla sua contestazione che questa sia una prospettiva impossibile per le donne per via delle realtà riproduttive, ma è impossibile anche per Koestenbaum, che non fingerà certo di non possedere un corpo. La nostra vicinanza al sudiciume ci istruisce, ci rivela a noi stessi.

Wayne Koestenbaum, Humiliation, 2011. Edito da Picador, New York.

In Humiliation scrive: “L’umiliazione è il primo evento che prepara la strada affinché il ‘sé’ sappia di esistere” 5. Questo abbraccio abietto è una mossa femminista, un rifiuto di partecipare alla cultura mitopoietica dell’arte moderna. Forse Consagra aveva ragione, l’artista è colpito dalle meraviglie del suo stesso corpo ed essere, ma Koestenbaum ci mostra che lo stesso artista non ha bisogno di rimuovere il disagio, può gettarsi nelle sue braccia, perché tanto di quello che consideriamo maturo e civile è dannoso e pericoloso per il nostro stesso sé.

È importante menzionare la comunità e l’ambiente letterario di Koestenbaum quando pensiamo al gioco nella scrittura, e in particolare nella scrittura accademica. Dopo aver letto il saggio della sua cara amica Eve Kosofsky Sedgewick, “A Poem is Being Written”, ho cominciato a leggere anche Koestenbaum sotto una luce diversa. Lei scrive dell’enjambement, l’espediente poetico, come qualcosa di corporeo, di naturale, collegato al movimento delle nostre ossa: “Conosco l’enjambement, non solo come parola tecnica nell’introduzione al mio rimario, ma come gesto fisico delle membra, dei fianchi, della coscia” 6. Pensare che la scrittura si sviluppi con e attraverso i nostri corpi, che come la fisica rifletta i mondi fisico e metafisico. Questo viene ribadito numerose volte nel lavoro di lei, e anche in quello di lui. E forse è anche qualcosa che Koestenbaum insegna attraverso i suoi metodi, la necessità di una comunità scrivente. In Double Talk: The Erotics of Male Literary Collaboration parla della tensione sociale/omosessuale tra gli uomini quando lavorano insieme su un libro, ma sembrerebbe che questa tensione si espanda anche oltre, in qualsiasi amicizia collaborativa, facendo sempre del lavoro qualcosa di erotico nel mondo di Koestenbaum. Anche nei suoi video per Instagram si trova una dovizia di collaborazioni queer. Bei giovani recitano poesie, cantano, si muovono al ritmo della musica nelle realtà dei collage di Koestenbaum. L’erotismo della letteratura raggiunge un nuovo pubblico.

Wayne Koestenbaum, My 1980s and Other Essays, 2013. Edito da Farrar, Straus and Giroux, New York.

Koestenbaum è un professore universitario, cosa così affascinante, così disorientante. Molto del tempo che ho passato nei dipartimenti di inglese mi appare falso: la letteratura non è una scienza, come osserva Koestenbaum nel suo saggio “A Manual to Approach Mourning” sulla sua defunta amica, “…sotto la tutela di Eve, potevi buttare via bussola e cartina. Potevi invece usare le mani, e fidarti che le tue dita scoprissero dove si svolgeva l’azione” 7. Forse si potevano seguire le mani di lei, ma con Koestenbaum sembra che stiamo seguendo qualcos’altro…interpretatelo come vi pare. E questo offre una speranza allo studio della letteratura: un coinvolgimento vivo, caldo con il testo.

Sto percorrendo una trafficata strada di Manhattan, devo avere più o meno dodici anni, c’è ancora quel motel Howard Johnson all’angolo tra la 46esima e Broadway e voglio un toast al tonno e un milkshake alla vaniglia e guardare gli uomini che salgono le scale fino a The Gaiety per godere di qualche piacere che ancora non riesco ad afferrare di preciso. Mia madre vuole portarmi da Colony Records per prendere lo spartito di Annie in cui mi esibirò d’estate, a casa nel Connecticut, nei sobborghi solitari, sarò un’orfana anonima, mai la star. “Ho passato il grosso dell’infanzia a cercare di distinguere identificazione e desiderio, a chiedermi, ‘Sono innamorata di Julie Andrews, o penso di essere Julie Andrews?’”8 Eh, sì, tuttora combatto con queste ambiguità.

Forse posso avere accesso a una parte di tutto questo attraverso i nostri effemminati gusti condivisi. Anch’io ho recitato nei musical, anch’io adoro l’opera, anche a me piace una scollatura. Forse è stata la mia errata identificazione con un uomo gay invece che con la lesbica che sono a portarmi a questo. La mia identità retro-queer. I primi anni con una madre ossessionata dall’eleganza e i miei goffi tentativi di trovarne una briciola. I primi anni con i preti cattolici e le loro registrazioni dei musical di Broadway e gli spettacoli domenicali dopo la messa, al Winter Garden. “Per il momento a questo saggio manca l’emozione. La aggiungerò in seguito. L’emozione è l’intermediario, qualcosa che resta invisibile nella transazione” 9. Per questa ragione adesso sono passata a Rachmaninoff, mettiamo i sentimenti in tavola, piangiamo insieme e ridiamo ridiamo ridiamo.

Wayne Koestenbaum, Andy Warhol: A Biography, 2011. Edito da Penguin Random House, New York.

È il mescolarsi di teoria e poesia che continua ad attrarmi verso il lavoro di Wayne… come un Roland Barthes più libero ed etereo, uno che Roland Barthes si sarebbe volentieri portato a letto. Sono il rigore e il gioco a definire la scrittura di Wayne. Spesso si immerge nel luogo da cui sono nate le idee, o nel terreno in cui hanno messo radici, le dissotterra, ci mostra le parti più azzardate. Anche a me sembra di essere cresciuta nel collage di un sogno febbrile di Wayne Koestenbaum: figuriamoci, l’ho letto solo molto tempo dopo, eppure la titillazione c’è sempre stata. Certo, ho incontrato i suoi influssi sulla via e forse sono stati loro, loro a portarmi a lui, e lui a me. In questi verdeggianti, castigati sobborghi del Connecticut, mi esercitavo diligente con il pianoforte e cantavo canzoni d’autore italiane davanti a uno specchio a figura intera con la cornice dorata; le cantavo per nessuno. E scrivevo sul mio diario, un’adolescente che si sentiva come Andy (Warhol), impossibile da amare, speciale. “In ogni lavoro e medium, lui [Andy] cerca di risolvere un enigma: che cosa significa esistere in un corpo, vicino a un’altra persona, che anch’essa esiste in un corpo? Questi due corpi si uniranno mai? Sono uguali o diversi?” 10

Wayne Koestenbaum, The Cheerful Scapegoat. Fables, 2021. In prossima uscita per Semiotext(e), Los Angeles. In copertina: Wayne Koestenbaum , Evening Quartet with Henrique, 2020. Collage.

Le sole cose che mi salvavano non avevano senso rispetto alla persona che mi consideravo o al mio contesto. Il primo imprinting non sbiadisce mai, e forse come tutte le persone queer ho trovato la mia strada nei mondi dell’immaginazione. “Così capisco perché il mio amico appassionato dell’opera tiene tutti i suoi dischi in garage: ne ha paura: ha paura che ascoltarli stravolgerà la sua vita” 11. Il lavoro di Koestenbaum sfiora tutte le ossessioni che mi sono tanto sforzata di nascondere e che adesso apprezzo, accetto e accolgo. Le nostre ossessioni diventano noi stessi.
Ho letto poesie da libri della biblioteca che nessuno consultava da decenni, come svelavano i vecchi timbri sulla scheda in fondo. Solo a posteriori capisco quanto fossero tutti gay, quanto la mia queerness si stesse manifestando in tutta la letteratura, se non in ogni desiderio palpabile. I libri portavano ad altri libri: è a questo che servono le bibliografie, dico ai miei studenti. Lasciano emergere patologie e spettri. Quando penso alla natura versatile del lavoro di Wayne penso alla prima poesia mai pubblicata da James Schuyler:

Salute

Past is past, and if one
remembers what one meant
to do and never did, is
not to have thought to do
enough? Like that gather-
ing of one of each I
planned, to gather one
of each kind of clover,
daisy, paintbrush that
grew in that field
the cabin stood in and
study them one afternoon
before they wilted. Past
is past. I salute
that various field.

Saluto

[Il passato è passato, e se uno
ricorda quel che voleva
fare e poi non ha fatto, non
basta aver pensato di
fare? Come quella raccolta
di un esemplare di ciascuno
che avevo escogitato, un
esemplare di ogni tipo di trifoglio,
margherita, hieracium che
cresceva in quel campo
dove stava il capanno e
studiarli per un pomeriggio
prima che appassissero. Il passato
è passato. Saluto
quel vario campo] 12.

Il campo variegato delle cose non fatte, la consolazione del lasciar andare, del sapere che ce ne sono ancora tante da fare. Come i suoi predecessori, Wayne è in sostanza un poeta della New York School, che osserva il quotidiano mentre scorre, guarda ai dettagli in rapide pennellate e al potere dei materiali. In Figure It Out c’è un saggio intitolato “Eighteen Lunchtime Assignments” e se non è un tributo ai Lunch Poems di Frank O’Hara, allora non so proprio cosa sia. C’è una capacità condivisa tra questi due poeti, non solo di coltivare la pratica nel quotidiano (lo stesso si potrebbe dire di molti poeti o scuole), ma anche di crogiolarsi nel linguaggio del quotidiano, di ricaricarlo con un tipo diverso di energia, di aggiungere una scintilla, un che di trasgressivo. Il compito numero cinque ha qualcosa di particolarmente furtivo che rimanda a qualcosa di più grande nel lavoro di Wayne:
5. Prendete un ascensore in un palazzo. Non il vostro solito ascensore. Non il vostro solito palazzo. Scrivete una brevissima poesia mentre siete sull’ascensore. Uscite dall’ascensore quando avete finito di scrivere.

Wayne Koestenbaum, Hotel Theory, 2007. Edito da Soft Skull Press, Berkeley, California.

Nello specchio dell’ascensore, di colpo, sono un’altra persona. Ora vivo in questo palazzo. Ora sono questa persona. C’è un radicamento nella realtà e nelle possibilità che da essa possono affiorare, un apprezzamento del mistero del quotidiano, degli aspetti nascosti del comportamento ordinario.
Come in un hotel, l’edificio estraneo mi permette di compiere la muta. “È chiaro che ho paura di chiedere una stanza all’Hotel Teoria. Sto gironzolando, nervoso, davanti alla soglia” 13. Vale anche per me, anche per me. Ho paura di farmi intrappolare in una risacca blanchotiana, e non dare mai più notizie. “Walter Benjamin ha scritto che noi—moderni—siamo molto carenti di esperienze della soglia. Viviamo molte esperienze del confine. Ma siamo lontani dalla terra natia della soglia. Forse solo quando ci addormentiamo viviamo in pieno quel luogo perduto, inafferrabile, inesistente. Scomporre un brano di scrittura significa—spero—estendere la soglia. Quando un brano di scrittura sa di essere distruttibile, frangibile, occupa la soglia” 14.

Wayne mi mantiene nel sogno. Non ho più paura di essere entrambi mentre leggo e scrivo con lui. Posso esitare e indugiare; non sono costretta a decidere. Vivere in questa liminarità è una capacità negativa a pieno titolo. Chiudo gli occhi e mi ritrovo a New York, stavolta al Lincoln Center, The Metropolitan Opera. Mio padre si sta appisolando mentre io pendo da ogni nota della Bohème, sporgendomi dal davanzale del mezzanino, sperando in segreto che la musica mi sollevi in aria e mi lasci lì, sospesa e felice.

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Allison Grimaldi Donahue