“We Don’t Like Your House Either!” è una rivisitazione del verbo “abitare”: una mostra raffinata, un arabesco diacronico che ci rammenta, in un momento complesso come quello attuale, la poesia di cui spesso facciamo erroneamente a meno.
Nata da un’idea elaborata e a lungo discussa dall’artista Tomaso De Luca e dal duo curatoriale Francesco Urbano Ragazzi, la mostra fa della condivisione un manifesto, tanto da sostituire all’abusato “io”, un solidale e democratico “noi”.
Il progetto si articola in due atti: l’esposizione romana, che accentua l’aspetto identitario corale, e la prosecuzione nella sede di Pereto, che lascia posto alla voce solista dell’artista.
Il fil rouge che lega i lavori presenti nello spazio romano è da rintracciare senz’altro nello sguardo ri–significante che rende alcuni eventi intimi e quotidiani, prelevati da un contesto domestico discreto, gesti alternativi, sovversivi, e perciò politici.
Stefano Chiodi nel 2010 scriveva: “Un’opera può oggi essere politica solo in senso estetico, non perché tratta di un argomento “politico”, non perché si schiera “contro” o milita “per” una causa, come ha argomentato di recente Jacques Rancière. Essa è politica per il modo specifico in cui crea percezioni e affetti in grado di far sperimentare, con il corpo e i sensi, qualcosa del mondo reale, della dimensione che abbraccia collettivamente gli individui, facendo al tempo stesso intravedere altri sviluppi, altre possibilità, altri potenziali, diversi da quelli tracciati dalle narrazioni dominanti” 1
La mostra incoraggia questo ventaglio di possibilità significanti: in Grosses Kaugummi (2016) di Gerry Bibby & Henrik Olesen, un monocromo nero, denso, di grandi dimensioni ci accoglie (e respinge) all’entrata della galleria romana rievocando la solennità dell’Avanguardia, per smentirsi poi immediatamente: non una tela ma un tappeto imbevuto di colore, sulla cui superficie bitumosa tre piccole escrescenze biancastre, tre chewing gum, scaraventano la nostra percezione in una dimensione domestico/urbana inaspettata. “La gomma masticata è la firma degli artisti, fregio e sfregio a una casa che non ci piace nemmeno”, sottolineano i curatori.
Site (1965) di Stan VanDerBeek, è un film poco noto, un piccolo gioiello, su tre canali che documenta l’omonima performance presso il Surplus Dance Theater di New York del 1964, dove Robert Morris, col volto coperto da una maschera disegnata da Jasper Johns, costruisce lo spazio scenico spostando grandi pannelli/tele bianchi fino a rivelare una sorprendente Carolee Schneemann, nelle vesti dell’Olympia di Edouard Manet.
Così Magic Box IV (2015) di Gina Folly, Untitled (2017) di Joanna Piotrowska, e Untitled (Maurice) (2013) di A.L. Steiner trasformano un oggetto o una visione apparentemente familiare nel moto rivoluzionario evocato dal titolo, un inno corale che dà voce agli esclusi, agli svantaggiati, agli artisti, di una società sfaccettata e in parte sommersa.
Nei disegni giovanili della fine degli anni Settanta, recentemente ritrovati, di Patrick Angus –che diverrà il ritrattista ufficiale della comunità gay americana tra gli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta – la casa, l’universo domestico, sono parte di un paesaggio silenzioso, delicato e perciò sovversivo. L’intervento di Tomaso De Luca ricompone i disegni all’interno di strutture trasparenti, ostensori profani che stratificano i dispositivi di visione.
Mentre nella serie Gewöhnen 189; 10; 68; 20, De Luca trasforma semplici oggetti di arredamento nei bozzetti di quattro edifici immaginari: strutture moderniste ibridate dal disegno delle abitazioni in cui l’artista ha effettivamente vissuto, trasformano la precarietà in uno stile che costituisce il cuore plastico della mostra. Tale ricerca è approfondita e amplificata nella sede di Pereto dove gli spazi di Palazzo Maccafani accolgono esclusivamente i suoi lavori: un corpo nutrito di disegni, sculture e installazioni che delineano i contorni maturi e consapevoli della sua ricerca più recente.
Tomaso De Luca declina dunque argomenti personali e intimi in un contesto espanso: come la riflessione sulle differenze di genere e sulle minoranze da cui estrapola con naturalezza temi ampiamente universali, evitando un linguaggio scontato. Francesco Urbano Ragazzi traduce il suo interesse nelle questioni onotologiche, nei gender e media studies in una raccolta di narrazioni e connessioni che, insieme alle strutture architettoniche di De Luca, creano un legante, una malta robusta ma elastica in grado di sostenere saldamente l’impianto di tutto il progetto.