Nel cinema e nella fotografia, l’autore utilizza l’obiettivo della camera come fosse un occhio per lo spettatore, rilasciando e trattenendo informazioni per dare forma a una determinata narrazione. Sadie Benning, noto al pubblico a partire degli anni ’90 per i suoi primi lavori video, conosce a fondo il linguaggio dell’immagine in movimento, e fa ricorso alle tecniche descritte da Michelangelo Antonioni nell’omonimo film “Blow Up” del 1966, incentrato sui temi della percezione e dell’ambiguità. In questo film iconico, basato su un racconto di Julio Cortuzar, un fotografo fa delle inattese scoperte mentre rivede i negativi in camera oscura. L’atto di guardare da vicino o di ingrandire l’immagine – blow up – rivela indizi di un potenziale crimine e alla fine costringe il protagonista a mettere in discussione la realtà stessa.
“Blow Ups”, la seconda mostra di Sadie Benning nella galleria di Milano, presenta una serie di dodici nuovi dipinti derivati da dettagli di fotografie realizzate da Benning mentre osservava da vicino opere di artisti come Henri Matisse, Pablo Picasso, Sigmar Polke, Lee Krasner, Paul Gauguin e David Wojnarowicz. All’interno del processo produttivo di questi lavori Benning attua molte fasi di ‘traduzione’, passando da immagine digitale a pellicola, disegnando poi i contorni su legno, fino a giungere a un risultato scultoreo, attraverso il ritaglio di elementi, ricoperti con resina a base d’acqua, e quindi dipinti e ricomposti, come un puzzle. Nel processo di reinvenzione delle immagini ingrandite alcuni aspetti dell’originale scompaiono o vengono distorti in maniera incisiva, veicolando l’idea che la copia è sempre una ricostruzione dell’originale.
Benning racconta come questo lavoro sia stato influenzato dall’esperienza quasi allucinogena di guardarsi per troppo tempo allo specchio: “Più a lungo guardi il tuo viso, più ti sembra alieno. E quando guardi un dipinto per un bel po’, accade lo stesso. Inizi a vedere altre cose. La superficie cambia. Tutto si trasforma in maniera quasi impercettibile.” I dodici dipinti che compongono “Blow Ups” possono assomigliare a cellule al microscopio, a qualcosa di vivo. “Quando sei lontano da un dipinto, vedi l’immagine”, dice l’artista. “Da vicino vedi i segni più che l’immagine stessa – e i segni trattengono l’energia della persona che li ha tracciati, senti la loro mano. È molto intimo, sporgersi per vedere, ed è anche un po’ proibito: nei musei vieni spesso sgridato se ti avvicini troppo a un quadro.”
Le opere d’arte da cui scaturiscono i dipinti di Benning sono state fotografate quasi come se fossero persone, spostando l’obiettivo da un tratto all’altro, e ingrandendo aree particolari che sembrano molto diverse se viste in maniera isolata. In questo modo siamo spinti a considerare i confini all’interno dei confini, le immagini all’interno delle immagini: l’infinita molteplicità che risiede in ogni momento all’interno del tutto, non solo nelle opere d’arte ma anche nel sé. L’artista ci ricorda che l’identità non è solida, ma piuttosto costruita da parti diverse. Il sé non è una entità unica, come ‘uomo’ o ‘donna’: è interconnesso e diffuso, pieno di mistero e per sempre in mutamento. Come gran parte del lavoro di Benning, anche questi dipinti analizzano il modo in cui elaboriamo il materiale visivo, e la trasformazione inerente all’atto di vedere e di archiviare i significati.
Usando la tecnica del blow up e re-immaginando parti di opere realizzate da altri artisti, il canone stesso viene messo in discussione. Dobbiamo considerare il modo in cui l’arte e i suoi creatori sono stati sanciti dal sistema, e come questo abbia contribuito a una lunga storia di sessismo, razzismo, omofobia e transfobia. A questo si aggiunge, all’interno della cultura popolare, una percezione distorta della figura del visionario, visto spesso come un essere solitario, libero da condizionamenti, una voce fuori dal coro. “Blow Ups” amplifica invece la collettività insita in tutte le creazioni, sollecitandoci a considerare come il capitalismo plasmi il nostro senso del valore e del significato. Includendo nel materiale di partenza sia artisti celebri che meno noti, Benning ci mostra come la percezione sia legata inestricabilmente, e spesso insidiosamente, al potere.