Il ricordo più vivo e recente che si ha del lavoro di Enrico David nel nostro Paese è senza dubbio legato al padiglione italiano dell’ultima Biennale di Venezia, in cui l’artista interpretava parte del labirinto allestitivo di Milovan Farronato: figure antropomorfe tra l’arcaico e il grottesco, e maschere funerarie che si rovesciavano in maschere della commedia classica, sorprendevano lo spettatore generando incontri inquietanti e attraenti al tempo stesso.
Se è vero che nel lavoro dell’artista la scultura svolge un ruolo di primo piano, testimoniando la sua attrazione per la malleabilità della materia, il ciclo di opere esposte nella sua prima personale da Giò Marconi è invece liquido, etereo, sfuggente.
Come se la sua intera iconografia fosse passata attraverso quel processo di sottrazione di peso di cui parla Italo Calvino, per raggiungere una leggerezza che – come nelle Lezioni americane – non è mai superficialità.
Per la prima volta vengono proposte esclusivamente opere bidimensionali (tutte datate 2020, ma concepite proprio l’anno precedente, durante la preparazione dei lavori veneziani): una serie di tele di diverse dimensioni, e alcune grafiche, che generalmente per l’artista sono piuttosto un punto di partenza, un canovaccio, destinato poi a trasformarsi in linguaggi diversi. Ma questa volta no, il disegno inizia e finisce in sé, senza per questo dare la sensazione di qualcosa di inconcluso.
Il ciclo pittorico attinge a un vocabolario visivo aereo, onirico e impalpabile. Le figure ruotano sempre attorno al corpo umano, come in gran parte della produzione dell’artista: corpi snodati, sformati, sinuosi – corpi che spesso si concentrano soltanto in una testa, la parte più viva e caratterizzante. Ci ritroviamo Sonia Delaunay, il Surrealismo, la Commedia dell’arte, il disegno infantile. E ancora, i tratti vegetali dell’Art Nouveau e perfino le metamorfosi naturali dell’Ermione di D’Annunzio, là dove il corpo di donna è tutt’uno con le canne di bambù o con gli aquiloni spezzati color carnevale. Le due tele più grandi (oltre 2 metri e mezzo per 5) segnano l’orizzonte entro cui muoversi per leggere tutta la mostra: la figura femminile, senza tempo, ieratica, fusa con l’elemento naturale si snoda in eleganti forme curve e guarda verso il sole (Il Fraterno Silenzio del Fango); oppure si moltiplica in una danza perfetta e modulare, in cui i capelli sono trecce o forse sono giunchi e mazzi di spighe verdi (Zattera Viva).
Solo apparentemente le tele più piccole si lasciano andare a toni ludici e a colori pastello: il volto di donna diventa ora volto di strega, ora volto di vegetale (Cielo trema o niente, Da già non più ad ancora qui, già non più). Mentre la serie dei piccoli disegni a grafite, tutti senza titolo, parla di tracce che questa volta rimangono tali. Di nuovo la testa è protagonista assoluta: maschile o femminile, antica, a volte deforme, sempre senza corpo, rifugge l’effetto grottesco e si rifugia nella serietà di una quadreria d’archivio.
La gamma cromatica di tutta la mostra rispolvera talvolta i colori caramella dell’infanzia, avvicinandosi all’effetto dell’acquerello; oppure abbraccia le tonalità della terra, della sabbia, delle foglie. Sembra di sentirselo negli occhi, il “Cielo di giugno” del titolo: cristallino, acqueo, leggero. E Dio solo sa quanto ne avremmo tutti bisogno.