Permanenza in divenire. Una conversazione con Lamin Fofana di

di 16 Marzo 2021

Lamin Fofana e Jim C. Nedd collaborano dal 2018, anno dell’uscita dell’album Brancusi Sculpting Beyoncé. La recente trilogia di opere descritta nel dialogo che segue è stata composta da Fofana e accompagnata da una serie di fotografie scattate da Nedd tra il 2018 e il 2019. Flash Art ripropone questo dialogo in occasione della partecipazione di Fofana all’11 edizione della Biennale di Liverpool in cui presenta un’installazione sonora multisensoriale su larga scalariscoprendo una storia trascurata legata a una nave, di proprietà dei mercanti di Liverpool, gli orrori della schiavitù e le realtà del capitalismo razziale.

Jim C. Nedd: Il mio primo incontro con il tuo lavoro mi riporta all’inizio dello scorso decennio, con la tua etichetta discografica Sci-Fi & Fantasy. Gli anni 2010 sono stati un momento molto specifico musicalmente. Com’era il contesto?

Lamin Fofana: Nel 2010 ho pubblicato un paio di EP su Dutty Artz, un collettivo dall’impronta selvaggia e rizomatica, fondato da Jace Clayton, noto come DJ /rupture, e Matt Shadetek. Il collettivo organizzava eventi, soprattutto feste a New York, ma era presente musicalmente in tutto il mondo, con una community che spaziava da Londra a Cape Town. A un certo punto, il collettivo è diventato più statico e io sentivo il bisogno di iniziare qualcosa di nuovo. Leggevo molta fantascienza – Samuel R. Delany e Octavia E. Butler, ma anche Nalo Hopkinson, Lauren Beukes, Kim Stanley Robinson. Volevo esplorare i temi e le idee derivanti dalle narrazioni. Così ho iniziato a creare una mia impronta con un amico, Paul Lee. Sci-Fi & Fantasy entrò in piena attività tra il 2012 e il 2014. Abbiamo pubblicato un paio di vinili e progetti ambient. A New York ero circondato da amici di diverse scene che facevano musica interessante. C’erano tanti sottogeneri in quegli anni, questo era a tratti fastidioso, ma era anche un grande momento per coloro che cercavano costantemente musica elettronica selvaggia.

JCN: La tua ultima mostra, “BLUES”, alla Mishkin Gallery di New York City (Marzo 2020), segna un nuovo approccio nella tua pratica. Come è nato questo nuovo corpus di lavori?

LF: “BLUES” è nata mentre ero molto coinvolto da testi fondamentali di Sylvia Wynter, W. E. B. Du Bois e Amiri Baraka. Da queste letture è emerso un corpus sonoro sotto forma di tre album: Black Metamorphosis, Darkwater e Blues. Black Metamorphosis è il manoscritto inedito di oltre novecento pagine di Wynter, scritto negli anni Settanta, probabilmente una delle più importanti interpretazioni dell’esperienza nera in Occidente. Darkwater di Du Bois, pubblicato esattamente cento anni fa, è una serie di saggi, poesie e schizzi che riflettono sulla supremazia bianca, il colonialismo, il capitalismo razziale, il patriarcato, la bellezza, la democrazia e molto altro. Blues riflette su Blues People(1963) di Amiri Baraka, un libro sull’esperienza della creazione di una cultura in un mondo alieno. Ho sviluppato una pratica di trasmutazione del testo in suono. La nostra prima collaborazione, Brancusi Sculpting Beyoncé (uscito nel 2018 per l’etichetta Hundebiss di Simone Trabucchi) è stata la scintilla, ma in un certo senso è da un po’ che sto producendo lavori che hanno a che fare con i concetti di “blackness” e immigrazione. Durante la realizzazione di questo progetto, ho invitato te e Nicolas Premier a contribuire con progetti visivi, date le nostre precedenti collaborazioni e conversazioni individuali intorno a queste tematiche e ai tempi turbolenti in cui ci troviamo. Le nostre collaborazioni hanno generato connessioni inaspettate e armoniose. Alaina Claire Feldman, curatrice e direttrice della Mishkin Gallery, ha offerto un sostegno incondizionato alla mostra.

“BLUES” è anche un progetto che collega tre continenti, Africa, Europa e Caraibi. Ha a che fare con l’“essere neri” al giorno d’oggi, l’ambiente, le migrazioni, il passato e il futuro. Il lavoro di Sylvia Wynter, e di importanti scrittori contemporanei come Fred Moten, Saidiya Hartman e Christina Sharpe, è stato particolarmente significativo in un momento in cui il mondo non può più essere rappresentato dal pensiero canonico. Cosa ci succederà dopo questa pandemia? Come stiamo entrando in quel nuovo mondo? Possiamo immaginare un altro mondo, un’esistenza diversa?

JCN: Quando ho sentito il tuo live set, sono stato catturato da una densa sensazione acquatica. Sono stato immediatamente immerso in una sorta di “multi coscienza” del tuo lavoro: le registrazioni sul campo, i beat e le voci hanno interagito narrativamente in modo tale che la performance sembrasse strutturata sui capitoli di una storia. Cosa motiva questo approccio narrativo?

LF: Ho sviluppato presto un interesse, un livello di consapevolezza dell’oceanico e l’idea dello spostamento geografico. Dal vivo ci sono sempre più narrazioni o strutture in movimento. Sono molto interessato a utilizzare la fisicità del suono per trasformare gli spazi, per disorientare, o per creare uno spazio di riflessione sullo spostamento, la solidarietà, l’isolamento, o qualunque sia l’umore o il sentimento con cui abbiamo a che fare in quel momento. In studio, di solito c’è un tema o un’idea di fondo che sprigiona un’emozione o “forza gravitazionale”, e a essere onesti, non sempre so dove mi porterà. Molta sperimentazione avviene quando sono in produzione, e sì, come hai detto tu, con field recording, registrazioni d’archivio, sintetizzatori ed effetti.

Attualmente, la maggior parte del mio lavoro ruota intorno al black noise, al noir noir. Non mi interessa la musica fine a se stessa, piuttosto la musica come strumento per esplorare idee, che apre nuove dimensioni e portali a nuove possibilità e modi di vedere. Lavoro con registrazioni d’archivio non solo per il loro fascino estetico, ma perché aiutano ad accedere a un tempo estatico, o per lo meno aiutano nella rottura della linearità e nell’apertura di paesaggi temporali non lineari e multidimensionali.

JCN: Una cosa che ha attirato la mia attenzione durante alcuni dei tuoi spettacoli è stato l’uso di specchi a scala umana. Qual è il loro significato?

LF: In alcuni ambienti, preferisco esibirmi dietro quattro o sei grandi specchi in piedi posizionati in modo che siano rivolti verso il pubblico. Come persona di colore che esegue un lavoro musicale di fronte a un pubblico prevalentemente bianco, devi pensare a queste cose – ciò che Saidiya Hartman chiama “ipervisibilità”, o “l’idea di guardare ed essere guardati, spettacolo e spettatorialità, godere ed essere goduti”. Sai che la relazione o il contesto è strano. Se sei già in una “terra strana”, perché non renderla più strana?

JCN: Dalla prima parte della tua ultima trilogia, Black Metamorphosis, ho percepito un nuovo modo di usare il suono, con più intervallo tra gli eventi, o uno spazio più ampio di riflessione.

LF: Mi piace l’idea di far collassare il tempo e lo spazio nelle mie produzioni. Non mi piace il modo in cui il suono viene presentato nella maggior parte delle gallerie e dei musei, e il mio lavoro è naturalmente contro certe forme standard. Così quando entro in quegli spazi, per installare un lavoro o per esibirmi, devo ascoltare attentamente le cose. Nelle gallerie sono stato in grado di allungare il tempo, espandere le idee ed estendere il mio lavoro a spirale nella dimensione del club in modalità inconsuete.

JCN: Negli ultimi anni il tuo lavoro di musicista ha messo in evidenza lo spostamento e la migrazione. Cosa ti ha portato a ragionare su questi temi?

LF: Mi sono trasferito dagli Stati Uniti alla Germania nel 2016. Ho passato gli ultimi anni vivendo a Berlino e viaggiando per l’Europa. Come persona di colore che esiste e si muove in spazi prevalentemente bianchi, sei sotto continuo scrutinio e subisci molestie da parte di estranei. Ma questo fa parte di un sistema, una struttura di dominazione e sottomissione che è incarnata nella condizione umana così come l’abbiamo conosciuta – ma dobbiamo immaginare la fine della condizione umana, specialmente in un momento come questo in cui siamo costretti a ripensare le nostre relazioni, tra noi e con il pianeta. Dobbiamo ripensare tutto.

JCN: Da quando abbiamo iniziato la nostra collaborazione con Brancusi Sculpting Beyoncé nel 2018, la mutazione è sempre stata un argomento topico nelle nostre conversazioni – la mutazione come conseguenza dello spostamento. Ti va di approfondire?

LF: Beh, la questione è stata posta da scrittori come Wynter, Baraka, Du Bois e Frantz Fanon. Cosa succede quando i neri si trovano in Occidente? Questo processo di permutazione estetica va avanti da secoli. C’è stata una continuità ininterrotta tra la schiavitù e il colonialismo e l’anti-blackness contemporaneo in tutto il mondo. La nostra esperienza di alienazione non è completamente originale, perché siamo legati a persone che sono state sottoposte a strutture di disumanizzazione per secoli. Data questa esperienza – perché di questo si tratta, non è solo memoria storica ­ i nostri incontri con il mondo ci costringono a sperimentare e creare nuovi concetti che ci aiutino a immaginare un’esistenza diversa.

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