Shelter: un luogo sicuro? Una conversazione con Primitive Art di

di 4 Maggio 2020
Primitive Art, Shelter (Chapter 1), 2020. Veduta dell’installazione presso La Triennale di Milano. Courtesy La Triennale di Milano.

Shelter è un progetto di Primitive Art, duo musicale composto da Matteo Pit e Jim C. Nedd. Un dispositivo aperto e in continua mutazione; una piattaforma mobile, multisfaccettata che si muove su più dimensioni e attraverso molteplici linguaggi. Shelter è un insieme denso e complesso di segni in scena per la prima volta negli spazi della Triennale di Milano lo scorso Febbraio. L’esordio “Chapter 1” – con un pubblico di circa quattrocento persone – ha sottolineato l’attitudine particolarmente inclusiva dell’istituzione milanese, dando visibilità anche a quelle comunità artistiche e culturali (e agli sguardi sperimentali di cui sono generatrici) solitamente assenti nei circuiti istituzionali.
La conversazione che segue tra Davide Giannella, curatore del progetto, e Primitive Art nasce dalle riflessioni nate in seguito alla performance. Intrecciando l’analisi di quest’ultima con i potenziali rapporti di senso attivati con la realtà odierna, questo dialogo sonda prospettive possibili allo sviluppo di Shelter.

Davide Giannella: In questi giorni caratterizzati dalla forzata permanenza domestica di gran parte dell’umanità, una delle parole più usate – probabilmente abusate – è “isolamento’’. Un tema che, fra gli altri, è molto presente in Shelter. Qual è la vostra relazione con l’idea di isolamento e come si è evoluta nel tempo la vostra modalità di percepire questa condizione?

Jim C. Nedd: Nella nostra esperienza personale l’isolamento si è spesso manifestato in situazioni di collettività, il che dimostra che non si tratta solo di una condizione di solitudine tangibile. Concetti come la disuguaglianza e la migrazione probabilmente sono stati i miei primi passi nel territorio dell’isolamento, la ricerca di un altrove. Insomma lo scenario del nostro progetto, come esprime anche il testo nell’atto introduttivo della performance: “We vanished, somewhere, within the rocks” – che descrive l’inizio dell’esperienza.
Questi elementi hanno iniziato a prendere forma nei lavori di Primitive Art sin dalla pubblicazione dell’album Crab Suite (Arcola, 2019) in cui abbiamo introdotto il nostro interesse a elaborare molti dei temi che sarebbero poi stati i punti cardine di Shelter.

Matteo Pit: Come hai detto, se ne sta parlando molto ultimamente. Penso che il nostro primo interesse in relazione al tema sia stato soprattutto per il rapporto che può generare tra lo spazio domestico e chi lo abita. Siamo partiti chiedendoci “Shelter è un luogo sicuro?”
“Chapter 1” è costituito dalla ricerca nel tentativo di rispondere a questa domanda attraverso vari strumenti. È stato interessante, soltanto poche settimane dopo il debutto, vedere come questo rapporto a causa della pandemia si sia inaspettatamente alterato nella quotidianità di tutti. Luoghi che solitamente associamo alla sicurezza, in un istante, sono stati percepiti come luoghi vulnerabli, fulcri del contagio, palcoscenici grotteschi dai quali si irradia paura.

DG: Come prima formula rappresentativa della piattaforma avete scelto “la casa” che, nello specifico, realizzate con segni semplici quanto evidenti, inequivocabili. Una struttura simile alle rappresentazioni infantili.

MP: Pensa a quella struttura come un involucro di ferro, che ancora non ha una sua storia. Avendo impostato il progetto come una saga, nella sua evoluzione possiamo controllare e generare le sue memorie, quella che sarà quindi la sua identità e la sua nuova forma. Abbiamo sempre ragionato su quanto l’insieme dei luoghi che abbiamo attraversato ci hanno modellato, contaminato e dominano alcune delle nostre ossessioni. Con Shelter il processo è stato inverso, volevamo un luogo senza tradizioni, uno scrigno che potesse contenere l’anima e le narrazioni di Primitive Art nel presente; una dimensione che potesse essere dominata da noi e gradualmente mutare con lo sviluppo del racconto che abbiamo iniziato, capitolo dopo capitolo.
Per questo motivo desideravamo anche che Shelter, attraverso la sua forma, apparisse come un luogo affascinante ma tormentato. La sua fisionomia iniziale è incerta, sembra una casetta disegnata da un bambino appunto, al tempo stesso potrebbe anche rimandare a una trappola, sospesa come una palafitta, determinando quindi l’esistenza di un pericolo, esterno o interno che sia, ma continuando comunque a convivere con esso.

JCN: Per “Chapter 1” abbiamo cercato di lavorare sulla tensione tra interno e esterno. Altrettanto importanti sono la serie di elementi che attraverso il suono e le luci condizionano questo dialogo muovendosi attorno alla struttura. Il pubblico stesso, disposto a cerchio, entra a far parte della performance come elemento coreografico inconsapevole. Questa tensione è presente anche nell’uso della voce: abbiamo lavorato di sintesi nella scrittura dei testi, arrivando a un elaborato asciutto e diretto, in cui le parole e le frasi essenziali spesso si ripetono ossessivamente. Utilizzando l’inglese come lingua percepibile ai più, e lo spagnolo come formula espressiva più istintiva.

Primitive Art, Frames da “Moult”, 2012. Video still. Courtesy Primitive Art.

DG: Più in astratto, una delle caratteristiche fondanti di Shelter, mi sembra essere la molteplicità. Il progetto infatti accoglie in sé diversi fenomeni espressivi: musica, performance, immagini in movimento, installazione.

MP: Nel caso di Shelter volevamo creare un’immagine vivente che potesse raccogliere tutti questi aspetti assieme. Penso che la nostra musica richieda un rapporto denso con la creazione del suo immaginario visivo. Non è collocabile in un genere musicale preciso e non risponde a dei codici comuni in grado di identificarla. Parte tutto dal suono che ha un rapporto diretto con il nostro inconscio e risponde liberamente è ciò che ci attrae. Con questo non dico che gli altri aspetti siano delle protesi, sono altrettanto unificanti e affrontati con la stessa cura.
Uno dei nostri primi esperimenti ad esempio è stato una performance videoregistrata. Moult (2012), è come se avesse anticipato varie narrazioni che poi abbiamo affrontato in musica e ha delle connessioni con quanto sviluppato poi in Shelter. Io e Jim ci filmavamo durante un processo di mutazione della pelle: come fossimo rettili, la pelle si staccava dal corpo come in una membrana – avevamo appena vent’anni. Giocavamo con questo involucro vuoto e pallido e ce lo scambiavamo per poi abbandonarlo. Penso sia stato quello l’inizio di un insieme di riflessioni sul nostro corpo, che è sempre stato parte fondante di Primitive Art.

JCN: Il nostro corpo ha sempre reagito istintivamente nei concerti; nonostante con il tempo abbiamo preso più coscienza del suo ruolo, preferiamo che possa continuare a reagire liberamente a quelli che sono i nostri istinti durante le performance. In Shelter è stato importante rendere ogni segno unico, sia da un punto di vista sonoro che visivo, per creare un’esperienza più cinematografica. Seguendo questa necessità anche il sistema di riproduzione del suono si è voluto distanziare da quello a cui siamo abituati, dalla sua idea di frontalità. Infatti il live è stato prodotto in sorround 7.1, fondamentale per creare un paesaggio sonoro immersivo, circolare e compatto nello spazio.

DG: La struttura che abitate durante le performance può considerarsi anche un’opera a sé, indipendentemente dalla vostra presenza in scena?

MP: Per ora non vogliamo definire troppo questo rapporto. Penso potrà definirsi un’opera indipendente solo dopo che l’avremo abbandonata e infestata.

DG: In che termini Shelter può considerarsi un progetto aperto?

JCN: Shelter può definirsi un progetto aperto da diversi punti di vista, uno fra questi è sicuramente legato ai contenuti che si susseguiranno all’interno in ogni capitolo. La nostra idea è che nel tempo possa dare spazio a discipline differenti, a collaborazioni con altri artisti e ad attività che non sempre prevedono la nostra presenza.

MP: Stiamo lavorando ad un capitolo che verrà presentato insieme a Terraforma. È un progetto in divenire, che può svilupparsi in contesti diversi e interfacciarsi con pubblici diversi. Al debutto del primo capitolo c’erano tanti bambini nascosti ma incuriositi nel pubblico, non era mai capitato a un nostro concerto, è stato inaspettato. Lo sguardo infantile è sicuramente un punto narrativo importante di Shelter.

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