In un breve ma acuto saggio del 2013 Claire Bishop fa un’analisi densa su cosa è contemporaneo nei musei d’arte contemporanea. Può sembrare ridondante, ma abbracciare un significato o accezione piuttosto che un altro, quando si parla di arte contemporanea in riferimento alla sua periodizzazione, può cambiare radicalmente le pratiche museali – quindi curatoriali-espositive. Molti dei teorici citati da Bishop leggono il contemporaneo come un tempo statico, che riproduce se stesso nell’impossibilità di costruire un futuro, altri invece leggono la contemporaneità con la nozione di anacronismo, che genera temporalità sovrapposte. L’“eccesso di tempo astorico” di cui parla Boris Groys ad esempio (ascrivibile alla prima categoria di teorici), è sintomatico della storia di tante pratiche museali degli ultimi trent’anni, in particolare dei musei che si confrontano con l’arte “presente” che devono necessariamente domandarsi come preservare un’identità culturale continuando a interrogare il proprio tempo.
Ripenso oggi a questo saggio perché il 2010, anno in cui nasce il MAXXI a Roma, è anche l’anno in cui Bishop rifletteva su queste tematiche – che si sono concretizzate poi in questo libretto, Museologia radicale – e ancora l’anno in cui, soprattutto in America, musei noti hanno operato scelte lavorando proprio sulla nozione di contemporaneo, incidendo irreversibilmente sulla museologia a venire.
Questo salto temporale contestualizza, in parte, la conversazione che segue. A distanza di dodici anni dal sisma che colpì L’Aquila, la città vede la nascita di un museo d’arte contemporanea, che occuperà un luogo storico restaurato e riqualificato per lavorare sulla cultura artistica del presente. L’immaginario di una città, ancora legato alle rovine del terremoto, ha oggi la possibilità di ricostruire un presente partendo dall’arte contemporanea. Abbracciando una pratica internazionale condivisa, il nuovo museo sarà un’estensione del MAXXI di Roma. Questo nuovo luogo deputato al contemporaneo sembrerebbe muoversi verso uno dei modelli di contemporaneità illustrati da Bishop: ovvero una “contemporaneità dialettica”, un nuovo modo di accostarsi alle opere in cui tempo e valore sono i cardini. Secondo questa visione il contemporaneo assume i connotati di una “pratica”, parola che ritroviamo in questo dialogo con Bartolomeo Pietromarchi, direttore del nuovo MAXXI L’AQUILA.
Eleonora Milani: In quale contesto nasce il MAXXI L’AQUILA?
Bartolomeo Pietromarchi: Dopo il terremoto del 2009, nell’ambito delle attività di ricostruzione de L’Aquila, è iniziato il restauro di Palazzo Ardinghelli che alla fine del 2008 era stato affidato al Ministero dei Beni Culturali. Il Palazzo è un alto esempio di tardo barocco italiano dell’architetto Francesco Fontana e negli anni precedenti al sisma era stato utilizzato per diversi scopi senza mai avere una chiara destinazione. Nel 2014 Dario Franceschini ha visitato L’Aquila e il cantiere di restauro dell’edificio che è durato otto anni ed è stato finanziato con un contributo della Federazione Russa. Destinare Palazzo Ardinghelli a luogo dedicato alle arti e al contemporaneo è apparso subito il modo migliore per dare concretezza al ruolo della cultura come strumento di rinascita e connessione della città e della sua comunità.
EM: Quel palazzo poteva diventare tante cose, perché proprio un luogo deputato all’arte? E perché Franceschini sceglie il MAXXI per questa estensione?
BP: Non posso rispondere per il Ministro Franceschini, posso solo aggiungere che il MAXXI è stato chiamato, in quanto istituzione che tutela e promuove un patrimonio statale, a realizzare un nuovo polo dedicato alla creatività. Abbiamo subito accolto con grande entusiasmo e impegno la sfida di contribuire alla crescita della città con l’apertura di un nuovo museo. Perché l’arte contemporanea? Mi sembra una scelta naturale, l’arte del presente ha questa capacità di lavorare sul simbolico: una sorta di dispositivo vitale in grado di attivare un dialogo con il tessuto sociale – in particolare le giovani generazioni – fondandosi sull’idea di laboratorio e di sperimentazione.
EM: Cos’è per te un museo che parte dal “basso”? Quando pensiamo a questo movimento dal basso in relazione a un museo pensiamo alla complessa (e spesso utopistica) sfida nella relazione con un territorio, con la sua geografia, la sua storia culturale, sociale, politica…
BP: Ho pensato che fosse importante replicare l’approccio che abbiamo sperimentato in questi anni al MAXXI di Roma. Anche qui a L’Aquila l’intenzione è di costruire un doppio movimento che unisca forze ed esperienze: uno che si sviluppa dalla relazione con il territorio e con le diverse istituzioni culturali e scientifiche; l’altro basato sulla valorizzazione di tutti i linguaggi della creatività, dall’arte alla fotografia, dando particolare rilevanza al valore delle collezioni. La prima mostra inaugurale – “PUNTO DI EQUILIBRIO. Pensiero spazio luce da Toyo Ito a Ettore Spalletti” – è infatti dedicata ad una selezione delle opere di arte, architettura e fotografia del museo e all’interno del percorso il pubblico potrà scoprire le prime otto nuove produzioni, che sono state appositamente commissionate per il MAXXI L’AQUILA, agli artisti Elisabetta Benassi, Stefano Cerio, Daniela De Lorenzo, Alberto Garutti, Nunzio, Paolo Pellegrin, Anastasia Potemkina, Ettore Spalletti. In tal senso abbiamo intrecciato in questi mesi collaborazioni e relazioni con i più importanti attori del panorama culturale, artistico e scientifico, presenti sul territorio come l’Accademia di Belle Arti, il GSSI – Gran Sasso Science Institute, i Laboratori Nazionali del Gran Sasso (Istituto Nazionale di Fisica Nucleare), il MuNDA – Museo nazionale d’Abruzzo, l’Università degli Studi de L’Aquila, oltre a diversi enti scolastici con cui svilupperemo programmi dedicati alla formazione. Ampio spazio sarà dato al settore educational lavorando con l’Università e anche attraverso il progetto dell’alternanza scuola-lavoro. Sono inoltre già in programma nuove produzioni che porteranno ad inedite interazioni tra arte e enti locali di eccellenza come ad esempio un progetto di Armin Linke con i Laboratori Nazionali del Gran Sasso e il GSSI. Questa nuova committenza porterà alla creazione di un percorso espositivo diffuso dalle sale del MAXXI ad altri luoghi della città. La “disseminazione” è una parola chiave per descrivere l’anima del nuovo museo che sta nascendo a L’Aquila.
EM: Il nuovo museo lavorerà con le arti performative? Soprattutto dopo questa pandemia il lavoro sulle produzioni time-based è in costante evoluzione – definire oggi cos’è una performance non è più così ovvio e definitivo…
BP: Proprio per l’autunno stiamo immaginando una grande rassegna dedicata alle arti performative che include artisti e espressioni differenti della performance, ideata in collaborazione con L’Accademia di Belle Arti de L’Aquila che ha un’importante eredità in questo senso, qui ha insegnato per anni il grande maestro Fabio Mauri. Altro lascito importantissimo è il nucleo della collezione di Joseph Beuys sul suo periodo abruzzese, donata all’Accademia da Domizia Durini. Sarà interessante registrare l’evoluzione di questa definizione che anche io credo abbia allargato notevolmente i suoi campi d’azione e approcci.
EM: Vorrei affrontare adesso il tema della collezione. Come lavorerete in questo senso? Resterà un unicum oppure questa nuova sede svilupperà un proprio nucleo collezionistico?
BP: Dall’inizio del mio percorso come direttore del MAXXI Arte, nel 2017, ho voluto dare un nuovo e forte impulso alla collezione, soggetto di una costante e dinamica attività di valorizzazione e promozione, al fine di rafforzare l’identità del museo come laboratorio di sperimentazione rivolto ai diversi linguaggi dell’arte contemporanea. Il vasto patrimonio del MAXXI, fatto di opere di arte e architettura, fotografie, materiali d’archivio, è pubblico e sarà presentato in entrambe le sedi di Roma e L’Aquila.
EM: Al di là delle acquisizioni, il lavoro sulle collezioni al MAXXI Roma è molto dinamico. Costruire di volta in volta letture diverse di un’identità museale, ancora piuttosto recente, con una ciclicità così costante non è comune – nemmeno per i musei d’arte contemporanea.
BP: La ciclicità con cui la collezione viene esposta al pubblico è un fattore imprescindibile. Ogni anno lavoriamo su un nuovo allestimento e all’interno del percorso spesso immaginiamo cambiamenti e riconfigurazioni. A febbraio 2022 è previsto il nuovo allestimento della collezione a Roma che sarà basato su una selezione delle ultime acquisizioni con diverse opere che finalmente potremo esporre per la prima volta. Dopo il decennale del museo, ci prendiamo un momento di studio e riflessione sul grande lavoro svolto negli ultimi anni.
EM: Possiamo parlare di museo come dispositivo? Sarebbe senz’altro una visione da approfondire in relazione al contemporaneo. Trovo poi che parlare di opera sia sempre più complesso oggi, per certi versi esclusivo, così come parlare di fruizione, non funziona più da quasi un secolo ormai. Io preferisco parlare di relazione che è sempre 1:1. Parlare di dispositivo si avvicina a questo rapporto, a questo “appuntamento” per dirla con Duchamp. E questa visione può essere forse l’unica percorribile per lavorare con l’arte contemporanea nel museo. Un’istituzione che continua a essere messa in discussione nella sua stessa definizione. Come ti poni rispetto a questo dibattito?
BP: Credo che la direzione di un museo derivi da una visione e conseguentemente da una pratica. La pratica permette di riflettere e approfondire. A differenza dei musei d’arte antica noi lavoriamo con l’arte “viva”, siamo letteralmente coinvolti dentro le dinamiche creative e processuali; è un campo di sperimentazione con un altissimo livello di interazione, confronto critico con il presente che richiede sì metodo, studio e ricerca ma anche continua messa in discussione dei limiti e delle definizioni. Io poi non sono un appassionato di definizioni.
EM: Definire a volte è una necessità, anche se anacronistico se riflettiamo sul presente e a come continua a mutare velocemente nel corso di questa pandemia.
BP: Siamo nel mezzo di una rivoluzione profonda e globale che ci consente al momento di definire le cose solo per un tempo breve e ancora troppo incerto. Ci stiamo abituando a questa oscillazione e credo adattando ad un nuovo modo di vivere. Stiamo attraversando un momento storico cruciale, un vero e proprio spartiacque che segna il mondo prima e dopo il Covid-19 e che vede nella scienza e tecnologia un perno fondamentale che modifica il nostro rapporto con lo spazio e il tempo. In questi mesi abbiamo conosciuto la distanza e la paura della relazione con l’altro.
EM: Questa paura della relazione non sta limitando però le produzioni che implicano il corpo (con le sue diverse declinazioni), persino la smaterializzazione evoca e implica il corpo. Raccontami di più della rassegna legata alla performance.
BP: L’ho chiamata “Contact(less)” perché di fatto stiamo andando verso quella direzione. La rassegna, in programma subito dopo l’estate, si svilupperà su quattro macro aree: la danza e il teatro, la musica elettronica, e poi quelle che ho definito “con-formance” (conferenze-performance) commissionate e dedicate a grandi personaggi della storia della performance art come Fabio Mauri e Joseph Beuys, accompagnati da una sezione di talk.
EM: Come lavorerete sull’arte italiana e sulle giovani generazioni?
BP: L’arte italiana e la promozione della creatività dei giovani rappresentano due degli asset fondamentali della nostra programmazione culturale. In questo periodo è ancora più sostanziale sostenere e valorizzare la progettualità dei nostri artisti rinforzando le relazioni con i diversi attori del sistema dell’arte. Nuove produzioni, progetti espositivi e di approfondimento si alterneranno a Roma come a L’Aquila, lavorando in sinergia con le potenzialità del territorio in un’ottica di posizionamento internazionale.