Tutto inizia nel bianco, nel silenzio. Ogni rumore attutito dalla neve. Lentamente iniziano ad apparire alberi con il ruvido disegno delle loro cortecce scurite da incendi, seguiti da qualche scarsa costruzione umana, recinti e staccionate dietro cui vediamo muoversi in lontananza i primi animali.
Questo è il panorama che apre la quattordicesima edizione de Lo schermo dell’arte a Firenze. Un paesaggio naturale, situato sui monti innevati dell’Idaho, scelti da Matthew Barney per la sua rilettura del mito di Diana e Atteone nel film Redoubt (2019). Diversamente dalle precedenti narrazioni letterarie – focalizzate sulle metamorfosi di Atteone subite per ira della dea protettrice del mondo selvaggio – ogni tipo di scambio verbale tra i suoi protagonisti è qui eliminato, lasciando che siano solo le coreografie dei corpi nella natura a sviluppare il racconto.
La trasformazione prende però una forma diversa nel mito di Barney. Il suo Atteone non è un cacciatore, ma una guardia forestale e un attento osservatore della natura. È un artista che, nelle sue esplorazioni, incide su tavole di rame il profilo degli alberi, dei monti e degli animali che vi abitano. Lastre che, immerse successivamente in bagni galvanici per essere placcate, mostrano una nuova metamorfosi: la natura, tradotta dal disegno umano, si mescola e si sviluppa nelle invenzioni formali della materia metallica. È la sua curiosità d’artista dunque, non di cacciatore, a spingere Atteone verso il territorio di questa Artemide contemporanea che, appeso al muro l’arco ricurvo in favore di un fucile da caccia, continua a popolare le foreste con le sue ninfe dei fiumi, ora interessata a seguire le tracce dei lupi grigi reintrodotti artificialmente nell’ecosistema boschivo statunitense. L’America contemporanea e il suo paesaggio naturale sono due attori essenziali nel cinema performativo di Barney, dove il reale e il mitologico si sovrappongono. La condizione mitica rivive attraverso la contemporaneità e, viceversa, il presente si eleva a una condizione metastorica, fatta di natura e cultura, immaginazione e pura fisicità.
Come il film di Barney ci dimostra, la natura mutevole delle cose, la continua rielaborazione, evoluzione e ricombinazione di significato sono al centro delle ricerche più puntuali nel cinema d’artista contemporaneo, produttore di immagini in movimento che non si riposano su un significato univoco, ma resistono alle aspettative dello spettatore e dello schermo cinematografico. Immagini che continuano a evolversi, lasciando dietro di sé pelli e carapaci convenzionali abbandonati in cerca di nuove metamorfosi, di linguaggi altri.
Così il duo tedesco M+M crea un omaggio alla “trilogia dell’appartamento” di Roman Polanski,1 costruendo con un set in scala un appartamento per due mantidi religiose, uniche attrici di questo horror psicologico dalla fine tragica (Mad Mieter, 2019). L’elemento perturbante di questo corto kafkiano è amplificato dal cambio di setting, che attribuisce connotazioni umane a un comportamento altresì considerato naturale seppur violento.
La trasformazione è centrale anche nelle immagini metamorfiche di Oliver Laric, a cui il festival dedica un’attenzione particolare, ripresentando su grande schermo i suoi molteplici video dedicati alle continue mutazioni del nostro inconscio visivo. In Untitled (2014-2015), Laric raccoglie da filmati d’animazione molteplici frammenti di rapide trasformazioni: invecchiamenti, cambi di genere e di forma – in animali, piante e oggetti inorganici – creano, nella tradizione di Ovidio e Callimaco, una nuova raccolta di metamorfosi, interessata a ritrarre la nostra attrazione per l’ambiguità, intesa come spazio di potenzialità fra due stati intermedi. Le metamorfosi di Laric si muovono veloci nella cultura dell’accelerazione, dove internet è il catalizzatore che modifica e moltiplica esponenzialmente il nostro immaginario collettivo.
“Noi crediamo troppo nelle immagini”, spiega Ivàn Argote a commento del suo film Au Revoir Joseph Gallieni (2021), anzi, “noi preferiamo credere nelle immagini” più che alla realtà2.
È da questi presupposti che l’artista colombiano costruisce il suo attivismo per immagini, utilizzando la finzione come strumento per anticipare i cambiamenti, politici e sociali, rendendoli reali. Il suo bersaglio ricorrente sono i monumenti pubblici, per ultimo la statua parigina dedicata al generale Gallieni, figura prominente del colonialismo francese.
Con un gruppo di attori vestiti come lavoratori e pubblici ufficiali e l’uso della animazione 3D, Argote mette in scena una rimozione ufficiale della statua. Mimetizzata alla perfezione, la finzione circola velocemente sui canali mediatici francesi, spingendo la pubblica amministrazione a dimostrare la falsità delle immagini ma spostando così il dibattito sulla necessità contemporanea di un’icona del colonialismo.
La mostra del programma VISIO che accompagna il festival, “Thinking Beyond. Moving Images for a Post-Pandemic World”3, riprende tale definizione di immagini attive per dimostrare come il video sia tutt’ora uno strumento particolarmente utile per rappresentare e ripensare la nostra condizione contemporanea, definita da una nuova ricerca di identità, sia essa di genere, ecologica, politica o affettiva.
Così le mani coperte da fango filmate da Alexandre Erre in The feeling of nostalgia (2019), immerse nelle acque limpide di un fiume, rilasciano una foschia ocra rivelando lentamente la propria pelle e soggettività. Mentre il monologo interiore dell’artista ChongYan Liu condivide, sopra le immagini di un viaggio solitario in macchina, la frustrazione provata in seguito a un aborto eseguito a diciannove anni (19, 2018). Una coscienza che, da sola, sotto la pioggia, di notte, processa senza filtri il proprio dolore e trauma.
Ma la solitudine e l’introspezione non solo le uniche modalità di produzione scelte per rappresentare il nostro presente. Nel buio di una sala sotterranea e deserta, percepiamo in lontananza le luci e i rumori attutiti di un club techno. Più camminiamo verso le immagini filmate da Roman Khimei e Yarema Malashchuk in Dedicated to the Youth of the World II (2019), più ci avviciniamo al percorso e all’esperienza dei giovani che, usciti dall’oscurità del rave, si ritrovano a essere inondati dalla luce del giorno e i rumori del traffico cittadino. La telecamera si sofferma a osservarne dunque i volti, a indagare lo sguardo di chi, uscito dal buio, cerca con difficoltà di adattarsi al nuovo paesaggio.