Paolo Bufalini “eve” MASSIMO / Milano di

di 21 Dicembre 2021

Un bagliore rischiara la notte in Via degli Scipioni, emanato dal fondo di una scala che conduce a MASSIMO, project space milanese che con la mostra di Paolo Bufalini “eve”, a cura di Paolo Gabriotti, conclude la sua prima stagione espositiva. L’artista, classe 1994, espone per l’occasione due opere senza titolo, inserendole all’interno di un’installazione ambientale che le riunisce sotto un’identica luce.

Varcata la soglia accediamo a un luogo illuminato da luci arancioni con cui l’artista ricrea i toni di un tramonto, dando vita a un ambiente in cui le opere sono immerse nel colore e nell’atmosfera psicologica che esso produce. Le opere in mostra si compongono di elementi eterogenei, che interagiscono in termini non meramente ottici, ma evocativo-simbolici. L’artista si serve della purezza formale di oggetti industriali e reperti naturali facendo scaturire dal loro incontro immagini pensate perché rimangano sospese in un’area di indefinizione, dove l’influsso che esercitano sull’immaginazione non può essere sacrificato al potere limitante di una didascalia. Su una parete è collocata una scultura composta da una sella di cavallo, su cui giace, in equilibrio precario, una palla di cristallo. Le linee sinuose e leggermente incavate del seggio sembrano disegnate per accogliere la rotondità di quel corpo estraneo. La sfera, simbolo carico di retaggi esoterici, catalizza l’attenzione con la propria evanescenza, invitandoci a indagare l’enigma di quel felice incontro. In un angolo della stanza sono collocati due comodini. Al loro interno, due teschi sono conservati come reperti archeologici tra brandelli di carta, documenti passati al tritacarte che dalle profondità di quei contenitori esondano fino a coprire il pavimento, scricchiolando sotto i piedi come paglia in un fienile.

L’estetica cheap dei comodini, crea una bizzarra variazione sul tema psicanalitico del cassetto socchiuso, dello scheletro nell’armadio. La mostra è una vanitas contemporanea i cui elementi iconografici – teschi, palle di vetro, lettere e spartiti – sono accostati in maniera spiazzante a oggetti appartenenti a immaginari meno occulti, ma per questo più carichi di mistero. Il tutto è immerso in un’atmosfera cromatica gravida del presagio a cui il termine “eve”–dall’inglese “vigilia”–allude. Un senso di sospensione aleggia; e non è solo il presentimento di un incombente tramontare, ma l’epoché a cui siamo indotti da una mostra in cui, citando il foglio di sala, “Non c’è nulla da decifrare, ma tutto sembra chiedere di esserlo”.

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Tommaso Gatti