Cosa persiste e cosa decade nel tempo?
La punta di un trapano infuocata dal napalm ardente tenta di perforare un disco, ma si raggrinza in una spirale che si ripiega su stessa, torcendosi (Wilting Helix, 2019). Una massiccia ciocca di capelli è sospesa in un sacchetto di plastica pieno di acqua. La immaginiamo animarsi in maniera convulsa, come un pesce rosso in preda alle pressioni del liquido (Liquid Isolation, 2019). Un guanto in lattice rivela il contorno di un dito sedotto da strati di materia difficilmente identificabile (If Revolution is a Sickness, 2020). Una lesione si svela nelle porosità della sua superficie sintetica, mostrando una bruciatura ancora calda (Her Charismatic Agony, 2020). C’è sempre una tensione palpabile a tenere insieme il tessuto emotivo che sottende le immagini di Diane Severin Nguyen, un senso di sospensione e distruzione che si manifesta nel momento stesso in cui l’artista blocca in un frame stringente l’amalgama dei materiali che usa e i fenomeni naturali che innesca. È una tensione fisica, plastica, elastica. È un impulso seduttivo e repulsivo che cattura stati provvisori e in trasformazione, e che investe i limiti del medium fotografico stesso. L’approccio di Nguyen alla creazione di immagini è viscerale; le sue ispezioni ravvicinate rivelano visioni intime di scenari che l’artista ricrea nel suo studio attraverso elementi accostati tanto scrupolosamente quanto fondati sull’effimero e il precario. Sono set che potrebbero stare nel palmo di una mano. “Mi piace affrontare la fotografia come un insieme di limitazioni, e anche come qualcosa di problematico. Mi costringe a iniziare a fare arte da uno spazio non sicuro.” Le sue immagini ibridano l’organico con il sintetico e giocano sempre con idee di astrazione: sono misteri abietti e alieni, dove la luce seducente e colori patinati rinnegano il senso di distruzione che ha portato alla loro creazione. Per questo sono dei “documenti”, dei residui di un processo di dolore e piacere, sottesi come sono da un’architettura emozionale e invisibile che ci manipola mentre li osserviamo.
Che sia incentrata sul corpo in relazione ai suoi processi vitali, o ancora sulla tecnologia come estensione del corpo stesso o sulla casa intesa come rifugio e protezione, la ricerca di Agata Ingarden è sempre interessata al rapporto tra interno ed esterno e agli spazi che creano disorientamento tra una domesticità—“dove tutto è al suo posto”—e una condizione più selvaggia e in crescita—“dove niente è al suo posto.” Ne sono diretta testimonianza Rooftop glamour e Coffee break (entrambi del 2022), due nuove produzioni concepite appositamente per la mostra e parte della serie The hours of dog. Come un organismo che si adatta e moltiplica, il lavoro dell’artista si espande nello spazio che lo costituisce. Nelle opere esposte la stratificazione e l’accumulo di gusci di ostriche sembra alimentare il volume e la proliferazione materica della parte superiore della scultura stessa. È la proliferazione di uno spazio fisico, ma anche sociale e “fabbricato” che inevitabilmente si scontra con l’elemento naturale, esplorando le relazioni tra gli esseri umani e le loro invenzioni. Ispirata all’architettura di stampo prevalentemente modernista che caratterizza gli edifici nella periferia Nord di Parigi (dove l’artista vive e lavora), la parte interna delle sculture è costituita da uno scheletro-maquette che, una volta ricoperto dall’elemento organico, perde ogni connotazione architettonica. Quello che ne rimane è una piccola finestra, spiraglio di intimità, barriera domestica di affetti familiari. Una luce gialla e UV al suo interno, palpita fioca. “Ogni ostrica è come un appartamento all’interno di un edificio in espansione; una massa ma non una comunità; una vicinanza e una separazione allo stesso tempo.” Una cascata di tende da ufficio funge da sostegno, sfumando e spingendo verso l’alto la scultura. “Per me questi lavori sono come edifici galleggianti: nuvole carnose, strisce accecanti di cielo, skyline di città.”
Simile ad un rettile che giace immobile, Derealization (2020) di Cezary Poniatowski è realizzato con un tappeto capovolto e cucito con fascette di plastica, rivelando la parte interiore come unica membrana visibile di un volume senza struttura. Ne fuoriescono due torce, come lenti binoculari che scrutano l’ambiente circostante. In Domestication (2020) invece il tessuto si aggroviglia dietro una composizione di forme geometriche rivestite in pelle sintetica. Due palle mediche in gomma nera si insediano tra le fessure come tracce di memoria catturate in contorni ormai invisibili. Queste sculture incorporano quelli che possono essere considerati i motivi generativi della ricerca di Poniatowski: la spinta verso la prospettiva distorta e capovolta che gioca con il “prisma” della memoria e con un senso di vuoto che rimanda alla sfera dell’inconscio; l’inclinazione verso lo “sbirciare” che, secondo l’artista, stimola i nostri istinti, creando tensione e disorientamento ed esaltando il carattere selvaggio e primordiale delle opere; il simbolismo evocativo della materia che si concretizza in presenze scultoree quasi spettrali. Ampiamente informata dal retaggio culturale della sua nativa Polonia, la pratica dell’artista fa ampio uso di compensato, pelle sintetica e schiuma da imbottitura che un tempo venivano impiegati per rivestire e insonorizzare le porte di ingresso delle case negli ex paesi del blocco orientale, così come i tappeti che risalgono all’era socialista dell’Europa centrale. Il bassorilievo Untitled (2022) irradia quel senso di abbandono che per l’artista proviene da un “artigianato tormentato.” Qui le cavità e i rigonfiamenti aumentano le ansie sottostanti la materia, mescolandosi in strati aggressivi e al contempo lenitivi. La dimensione del suono rimane muta, come se fosse rinchiusa al suo interno, impercettibile. “La mia arte funge da specchio deformante che si concentra su fili esistenziali, dove le storie pulsano sotto la pelle.” A volte queste storie si animano di personaggi isolati e chiusi in sé stessi, come in Red Sand (2022), dove quattro figure ricoperte di sabbia rossa siedono al bordo di un vaso in terracotta: testimoni fuori scala di una tensione sottocutanea, “una quasi suspense di un momento di attesa per qualcosa che non vuole arrivare.”
Come prese d’aria ancorate al muro o sistemi di drenaggio, i disegni Fillet e Fingers deep (entrambi del 2020) di Rebecca Ackroyd evocano un sentimento di attraversamento e di esplorazione della psicologia dello spazio e dell’architettura domestica e urbana in relazione al “sentirsi” in un corpo e nelle sue funzioni vitali. “Mi piace l’idea che l’architettura conservi il senso di chi l’ha precedentemente vissuta e occupata.” Al pari della produzione pittorica e scultorea dell’artista—che trova generoso respiro in ambienti installativi onirici che si confrontano con crude realtà—le opere a pastello qui esposte (parte di una serie in corso) sono fugaci frammenti di una conversazione più ampia, tracce di ricordi pervasi da un senso di abbandono nel quale traspare un elemento apertamente femmineo tanto nelle forme quanto nelle tonalità color carne su sfondi purpurei. In equilibrio tra astrazione e figurazione, questi lavori evocano ed accentuano il rapporto tra spazi interni ed esterni, e tra i corpi al loro interno: richiamano porzioni di scheletri umani e si infiltrano come rovine domestiche negli angoli più remoti, tra uno stato di impermanenza e il perdurare di una memoria personale e collettiva, tra i toni polverosi del pastello e i bordi strappati della carta. Il riferimento a una iperfemminilità seducente fa invece eco in Soft Engine 5 (2019) che si offre allo sguardo come un’immersione tra corpose ciocche di capelli: onde rosse che si insediano in un potenziale paesaggio dove un dettaglio centrale apre a uno spiraglio fecondo e quasi minaccioso.
Testo di Giovanna Manzotti