In quella specifica storia dell’arte intesa come evoluzione artistica “in relazione a” definita da Nicolas Bourriaud1, si delineano tre grandi momenti: sino al Rinascimento l’arte è il tramite per comunicare con il divino; successivamente, e sino al Cubismo, è un modo di confrontarsi con la realtà; dagli anni Novanta, infine, esplora il campo delle relazioni interpersonali.
Come può un pittore odierno, non dedito alla figurazione, rappresentare la realtà? Questa è la domanda di fondo che Gianni Politi si pone nella realizzazione della serie di tele (tutte del 2021) per “The Last Stand”, la sua terza mostra personale da Lorcan O’Neill.
La risposta risiede tutta nella prima impressione che si ha entrando negli ambienti della galleria romana. L’epidermide accesa dei collage pittorici – cifra stilistica tipica del Politi astratto –, unita alla grandezza dei formati, crea nel visitatore un tale impatto da doversi fermare per riequilibrare il respiro. La seduta in legno al centro della sala, memore delle tradizionali panchine delle sezioni museali dedicate ai dipinti di grandi dimensioni, è lì per questo. Sedersi e far affluire spontaneamente delle domande, a partire proprio da cosa ha determinato l’esigenza della sosta.
Nutrendosi, sin da piccolo, dell’osservazione delle grandi pale d’altare nelle chiese romane e della pittura ottocentesca nell’ex allestimento della Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma – qui concretizzatasi in un dialogo diretto con la mostra “Tra queste sale (malandrino)” (2014-2015) –, Politi individua nel grande formato e nell’uso per contrasto e armonie dei colori le uniche possibilità narrative all’astrattismo.
Se in mostra tutte le tele hanno lo stesso sapore, due sono quelle che ambiscono a metterci in relazione sia con uno spirituale dentro e fuori di noi, sia con la realtà del mondo circostante. Le si riconosce non solo per le dimensioni ma per i loro elementi costituenti: più pannelli a formare un unicum difatti è riconducibile ai grandi polittici. Due tele accostate, con le parti superiori ricurve, rinviano, per nostra cultura occidentale, alle grandi pale d’altare. In questo caso, in Insostenibile dare un titolo (bruciare da dentro), Politi guarda, non senza pudore, all’Assunta di Tiziano presso Santa Maria Gloriosa dei Frari a Venezia.
Il riferimento alla pittura storica, invece, è il dipinto che dà anche il titolo alla mostra: The Last Stand, by William Barnes Wollen (1898). Si tratta di un quadro di cinque pannelli che insieme misurano 360×800 cm. Qui il dialogo è con un dipinto storico del pittore inglese Wollen che in questo caso non ritrae una vittoria ma la disfatta imperiale durante la prima guerra anglo-afghana nel villaggio di Gandamark il 13 gennaio 1842. L’ultimo gruppo di superstiti, tra ufficiali e soldati inglesi, resiste e rimane fermo nella sua posizione di difesa sino alla fine inevitabile, the last stand appunto.
Si potrebbe aggiungere una durata a quella resistenza, semplicemente leggendo l’aggettivo ‘last’ come verbo e quindi augurandoci di persistere anche “sotto assedio”, come suggerisce l’artista nel suo testo in mostra.