La ricerca di Alice Visentin indaga il potere immaginifico dell’oralità e del racconto soffermandosi su storie, canti e rituali che congiungono passato e presente. Il passaggio della parola da corpo a corpo, da soggetto a soggetto, riflette archetipi, memorie, tradizioni – collettive e personali – che tessono una trama complessa, densa ed universale.
La pittura è usata per tracciare e intrecciare immagini che provengono da storie arcane, delle origini o provenienti dalla quotidianità più semplice, silenziosa ed autentica di una chiacchiera o un racconto. Questa raccolta di immagini vuole seguire il flusso del vivere e dar voce ad una molteplicità di soggetti, per avvicinarsi alla complessità del mondo da prospettive ed esperienze singolari, anche ai margini, facendone risuonare le parole.
Il luogo di queste immagini è il corpo: non solo per la necessaria presenza di un interlocutore affinché le nostre parole assumano significato, ma anche come origine e filtro. Non a caso, sono proprio sagome del corpo di Alice che accolgono le storie da lei raccolte e interpretate. Questi supporti di carta dalle forme ripetute, ma dalle linee sempre diverse, sembrano volerci ricordare l’unicità e la singolarità soggiacente ad ogni collettività.
Le voci e storie di donne sono assunte come fonte prediletta, in quanto “in molte parti del mondo, le donne sono state viste storicamente come tessitrici della memoria – quelle che mantengono in vita le voci del passato e le storie delle comunità, e che le trasmettono alle generazioni future creando un’identità collettiva e un profondo senso di coesione. Sono anche le depositarie delle conoscenze acquisite e della saggezza riguardo ai rimedi medici, ai problemi sentimentali e alla comprensione del comportamento umano, a partire da quello degli uomini.”1
Le storie si intrecciano in una foresta di corpi e narrazioni che si sovrappongono, si uniscono e continuano in altri profili e nuove configurazioni proiettate sulle pareti con un gioco di luci e ombre.
Ad aspettarle, fisse come icone religiose o semplici padelle di rame appese in cucina, dei cocci di terracotta, dei coperchi di pirofile: sono le malefate del titolo della mostra. Si diceva che le malefate fossero delle piccole figure femminili che bisbigliavano i destini ai bambini appena nati decretandone il fato nel bene o nel male, amavano vestirsi di rosso e, su telai d’oro, tessevano splendide stoffe che stendevano sui prati al chiaro di luna. Queste presenze sembrano apparire dalla terracotta, ricordandoci altri miti femminili delle origini sull’inevitabile coesistenza tra bene e male. Anche in questo caso, come per la curiosa Pandora, i contenitori sono aperti. Restano solo i coperchi. L’intreccio di storie che ne è uscito ha ormai animato la stanza.
Per le malefate la parola è il mezzo per tessere il destino addosso ad una persona; bisbigliando la sua storia ne determina il futuro, creando il percorso che lo guiderà nella vita. Non a caso in piemontese la “desmentioura” è la donna che pratica la “smentía“, il rito magico. La parola deriva da “desmetié“, dimenticare. Quando la fattura è fatta, la traccia delle narrazione si è persa, dimenticata.
Il filo della storia e del tempo torna anche nella figura delle Moire dell’antica grecia: altre figure femminili abili tessitrici e figlie della notte che hanno il compito di tessere il fato di ognuno, svolgerlo ed infine reciderlo segnandone la fine.
Questo ruolo ricorrente della parola e del filo narrativo affidato a figure femminili che lo intrecciano e determinano la complessità della condizione umana è ciò che ricerca Alice Visentin in “Malefate”.
“Un filo magico parve allacciare le donne dando loro un’eccitazione composta e ardente. La fila si cominciò a piegare, formando lentamente un circolo: di tanto in tanto una donna s’avanzava, staccava due mani unite, le intrecciava alle sue, accresceva la ghirlanda nera e rossa dietro cui si muoveva la frangia delle ombre. E i piedi si sollevavano sempre più svelti, battendo gli uni sugli altri, percuotendo la terra come per svegliarla dalla sua immobilità.”2