Tra gli aspetti forse più affascinanti del diritto ambientale vi è il riconoscimento di una personalità giuridica a elementi del territorio come fiumi, laghi, montagne. Si tratta, di fatto, di una ‘finzione’ amministrativa che attribuisce lo status di persona a soggetti non umani, riconoscendo loro il diritto di difendersi in tribunali regolari contro forme di aggressione come l’inquinamento, lo sfruttamento, la limitazione delle proprie funzioni vitali – i primi casi di questo tipo sono da rintracciarsi in Equador e Bolivia, e più di recente anche Nuova Zelanda, India e Bangladesh si sono aggiunti a questa virtuosa sequenza. È facile capire come, culturalmente, operazioni di questo genere comportino un drastico spostamento di paradigma in senso anti-antropocentrico: la centralità assoluta dell’umano, spesso assoggettata al canone occidentale, viene messa in discussione da possibilità di pensiero completamente diverse.
È questo il principale asse di riflessione che guida l’ottava edizione della Biennale Gherdëina, ospitata dal comune di Ortisei e dalla spettacolare area della Val Gardena, in Alto Adige, e curata da Lucia Pietroiusti e Filipa Ramos – figure internazionali che da anni si occupano della relazione fra arte e ecologia.
Il titolo, “Persone Persons”, rimanda al significato etimologico del termine: in lingua etrusca e nelle successive culture classiche, la parola persona indicava la maschera teatrale. Quindi non l’essere umano che la indossava, ma piuttosto il suo involucro, una copertura in grado di attribuire potenzialmente personalità a qualunque essere vivente la indossasse.
A riflettere su questo tema – cui si affianca quello della transumanza – sono stati chiamati ventiquattro artisti, fra cui collettivi, provenienti da tutto il mondo.
L’invito è stato volutamente aperto, fluido: non l’imposizione di un tema preciso su cui lavorare, ma la proposta di un dialogo costante, di visite anche reiterate sul luogo della Biennale, e l’esortazione a sintonizzarsi con l’ecosistema circostante ––invito che per contro vale anche per il visitatore.
Il percorso espositivo comporta un’esperienza continuamente mutevole perché le sedi che ospitano le opere presentano una diversa natura: dallo spazio espositivo in senso stretto (la Sala Trenker nel centro di Ortisei) alle strade del centro cittadino, da un suggestivo castello a picco sulla valle fino all’immersione totale nel paesaggio dolomitico della Vallunga, patrimonio dell’Unesco. Il massimo grado di ‘immersione’ nel contesto si ha inevitabilmente con Sentiero, il progetto di Alex Cecchetti a cura di Valerio del Baglivo che continua la serie delle “Walks” performative dell’artista. Addentrandosi nei boschi dolomitici sopra Santa Cristina, guidati individualmente da creature-performers della foresta, si assaggiano gli aghi degli abeti, si ascolta il rumore del vento, si imparano i nomi dei fiori e le leggende locali. Una sensazione di panteismo laico immerso nel contesto culturale e naturale che culmina in una yurta dipinta con i colori dei fiori.
Particolarmente suggestiva, forse la più efficace da un punto di vista allestitivo, è la sede del seicentesco Castello di Fischburg. Nato come tenuta di caccia, è attualmente residenza estiva di una famiglia nobile romana, che ne ha messo a disposizione le aree esterne. Nel piccolo, splendido cortile trovano spazio una Sister (2022) di Chiara Camoni, la fontana del duo londinese Revital Cohen & Tuur Van Balen, che ha studiato a lungo nel Museo di storia naturale di Bolzano, il Pinocchio (2022) di Bruno Walpoth, una videoanimazione in stop motion amaramente ironica di Lina Lapelyte (They Stole My Soul, 2022). E, ancora, nel giardino antistante la valle, il progetto site-specific del collettivo Ignota, Memory Garden (2022).
Nella cornice della Vallunga, dove è difficile sfidare l’imponenza dello scenario naturale senza esserne schiacciati, raccolgono la sfida tre artisti con opere diverse per medium e formato: Barbara Gamper, Hylozoic / Desires, e il grande fiore di Eduardo Navarro.
Spostandosi infine nella cornice urbana di Ortisei, il vecchio Hotel Ladinia ospita, tra le altre, l’installazione video multicanale di Ana Vaz e Nuno da Luz. I due artisti hanno lavorato a lungo con l’Ufficio Caccia e Pesca di Bolzano, utilizzando i girati delle telecamere di sorveglianza per osservare i comportamenti degli animali selvatici, come lupi e orsi, presenti nell’area. Oppure una trapunta di Angelo Plessas, tra gli interpreti più letterali del tema della Biennale, i cui pezzi ricamati a mano creano un universo di profondo sincretismo. Il suo lavoro è presente anche nella Sala Trenker, in cui un white cube solo apparentemente distante dalla specificità degli altri luoghi ospita la collettiva principale della manifestazione. Qui, accanto a nuove produzioni di artisti più giovani, troviamo Simone Fattal, Etel Adnan, e Jimmie Durham, questi ultimi scomparsi a pochissima distanza l’uno dall’altro nei mesi di preparazione della Biennale. In una mostra pervasa da un indefinibile senso di spiritualità laica (legato alle leggende ancestrali del luogo, all’onnipresente palpito vitale della natura, ai cieli immensi che sovrastano le Dolomiti), è stato quasi inevitabile immaginarsi Durham e Adnan, come i due numi tutelari della Biennale Gherdëina di quest’anno: alla loro memoria, almeno un po’, è dedicato tutto questo.