Pietro Roccasalva “Chi è che ride” Collezione Olgiati / Lugano

24 Ottobre 2022

 

La mostra, la prima dedicata all’artista da un’istituzione svizzera, nasce con l’idea di presentare e ricostruire alcuni nuclei fondamentali della sua produzione attraverso un progetto che mette insieme circa 50 opere, dalla fine degli anni Novanta ad oggi, tra nuove produzioni, lavori inediti provenienti dallo studio dell’artista e altri da prestigiose collezioni pubbliche e private.
Il lavoro di Pietro Roccasalva ha a che fare con la pittura come campo di azione specifico, anche quando contempla l’utilizzo di altri media che sono sempre parte integrante del processo che precede e segue la realizzazione di un’immagine pittorica. La ricerca formale e concettuale che l’artista ha portato avanti negli ultimi vent’anni, si muove infatti all’interno di un campo d’indagine ampio in cui la pratica pittorica incrocia altri mezzi espressivi come scultura, fotografia, video e performance, all’insegna di una contaminazione linguistica che ha però sempre il suo punto di partenza e di arrivo nella pittura. Attraverso una pluralità di riferimenti che spaziano dal quotidiano alla storia dell’arte, dal cinema, la letteratura e la filosofia alla cultura digitale e mediatica, Roccasalva ha elaborato un vasto repertorio iconografico fatto di personaggi, oggetti, architetture e un vocabolario molto personale in cui le tecniche e i generi pittorici più tradizionali incontrano le più recenti pratiche digitali.

La mostra si articola in diversi ambienti che attraverso la combinazione di lavori iniziali, disegni e opere iconiche restituiscono temi e iconografie ricorrenti nel lavoro dell’artista.
Ad aprire il percorso sono l’immagine dipinta di un gallo che indossa la divisa della guardia svizzera pontificia, Untitled (2011) e un’insegna al neon dipinta di nero che riproduce la scritta “chi è che ride chi”, tratta da una vecchia edizione italiana de “Il Bafometto” di Pierre Klossowski. Questa espressione, onomatopea del canto del gallo, è un malinteso che come un “ritornello” accompagna l’artista da più di 20 anni. Roccasalva cavalca consapevolmente il malinteso del testo originale intendendo quella frase enigmatica, carica di interrogativi e presagi, come il canto di un gallo che annuncia l’alba ed esorta a fare, malgrado tutto. Arrangiata anche formalmente come ritornello, nell’insegna la frase gira su stessa e il “chi” finale si va a sovrapporre sul “Chi” iniziale, diventando Chi è che ride (2022), mentre la pittura nera che ne ricopre la parte frontale lascia passare la luce solo sul retro, come un’alba al termine della notte.

Questo lavoro – che contiene in sé il concetto del linguaggio come malinteso e del ritornello come un modo attraverso cui si tenta di ridurre il caos del reale a un ordine rituale e simbolico – fa da introduzione all’intero progetto perché racchiude il senso di tutta la ricerca dell’artista: una riflessione sulla crisi del Soggetto, e dunque dell’identità, dell’immagine e della forma. Questa crisi, che si avverte in modo più eclatante nelle epoche di transizione, è la stessa crisi esistenziale che da sempre riguarda l’uomo. Tutte le opere di Roccasalva sono il tentativo di trattare quel caos, rispetto al quale le immagini sono un filtro – un ostacolo e una protezione – e l’artista ne indaga gli interstizi per fare esperienza del luogo da cui appaiono e in cui scompaiono.

Alle spalle della grande insegna al neon, la prima sala mette insieme per la prima volta un gruppo significativo di opere pittoriche tratte da Just Married Machine #1, un tableau vivant del 2012. Queste opere ritraggono una coppia di sposi all’interno di un paesaggio affollato di oggetti ideati e realizzati in occasione del tableau vivant, quest’ultimo ispirato dalla natura morta che apre il film “La Ricotta” di Pier Paolo Pasolini. Osservando quella tavola imbandita, l‘artista la re-immagina con un meccanismo simile all’omofonia tra frasi di senso diverso in Raymond Roussel e sostituisce gli elementi di cui era composta con oggetti analoghi in scala umana e figure viventi – il canestro e il panneggio con una mongolfiera, il grappolo d’uva con una persona che porta dei palloncini, un fiasco di vino con una donna che impugna una racchetta, le teste d’aglio con dei grandi calici formati dall’assemblaggio di sanitari, e così via. In cima alla composizione, infine, sull’albero maestro di una strana imbarcazione c’è il gallo che si incontra all’inizio della mostra. Il risultato è una scena con figure umane, animali e oggetti che ha la grandiosità delle composizioni sacre, storiche o mitologiche ma allo stesso tempo rimane una natura morta. Partendo da quella scena l’artista ha iniziato un ciclo di lavori in cui la visione che l’ha generata continua tutt’ora a fermentare, variare e ramificarsi. In mostra la restituzione pittorica di questo soggetto passa attraverso diversi momenti che ne raccontano la genesi e l’evoluzione, a partire dagli studi su carta nascosti sul retro delle Moleskine di Rear Window (2016) fino alle grandi tele che ritraggono la coppia di sposi Study from Just Married Machine (2018; 2019; 2022), e ai piccoli dipinti in bianco e nero della serie Hetalvó (2018). Questi ultimi nascono a loro volta da una installazione-tableau vivant del 2013 intitolata The Seven Sleepers, in cui sette studenti – gli stessi ritratti nei dipinti – erano stati invitati a disegnare un modellino in scala di Just Married Machine #1.

Il personaggio della sposa diventa protagonista di un’intera sala che mette insieme una selezione di trenta disegni inediti e una serie di dipinti recenti, intitolati La Sposa Occidentale (2021). La figura è ritratta insieme al suo attributo iconografico, la racchetta le cui corde sono state modificate secondo il disegno michelangiolesco di Piazza del Campidoglio a Roma – già apparso in opere precedenti dell’artista – e che ricorda anche un acchiappasogni. La presenza dei disegni, tutti dedicati a un singolo soggetto, ha un peso importante all’interno della sala. Il loro accostamento ai dipinti, oltre che raccontare la genesi di un’immagine pittorica, sottolinea come per Roccasalva il disegno sia un passaggio che non scompare nell’esecuzione dell’opera, ma al contrario rimane bene in evidenza anche e soprattutto nell’opera finita.

L’incontro tra maschile e femminile e la polarità tra animato e inanimato ritornano anche in The Argon Welder (2019), un ciclo che tematizza il gesto artistico in generale e il suo potere di sublimare l’ordinario cambiando la sostanza delle cose. Protagonisti sono una rosetta – il tipico pane italiano presente anche in alcuni achrome di Manzoni – e un calice realizzato dal calco di quel pane che dunque ha la sua stessa forma ma in negativo: due elementi che nella loro forma rivelano il fatto di essere stati accoppiati. Roccasalva dipinge gli oggetti in modo realistico, ma arrangiandoli in composizioni che li animano facendoli sembrare altro. Prendendo in prestito il termine da James Joyce, questi dipinti potrebbero anche essere definiti “epicleti”. L’epiclesi, che nella liturgia cristiana si riferisce al momento dell’invocazione dello Spirito Santo per la transustanziazione del pane e del vino, è per Joyce assimilabile alla potenza dell’arte e alla sua capacità di “dare alle persone una sorta di piacere intellettuale o di godimento spirituale convertendo il pane della vita quotidiana in qualcosa che ha una vita artistica permanente”.

La mostra è anche una testimonianza della versatilità tecnica di Roccasalva che usa indifferentemente la pittura a olio o ad acrilico, così come il carboncino o il pastello morbido non fissato. Tale duttilità emerge in modo particolare nelle sale in cui sono esposti i dipinti dedicati ai personaggi dell’ascensorista di The Skeleton Key (2007; 2015) e del cameriere de Il Traviatore (2012; 2014). Queste opere raccontano l’evoluzione stilistica che si accompagna al susseguirsi delle variazioni iconografiche, oltre che appunto l’uso delle diverse tecniche. In particolare, il pastello morbido non fissato è un medium che l’artista usa da sempre – come testimoniato dal ritratto The Good Woman del 1998 – perché fra tutte le tecniche tradizionali è la più “virtuale”, quella che permette di modificare continuamente l’immagine lasciandola sempre aperta.

Dalle scene con oggetti e figure della prima sala, si arriva nell’ultima a una serie di dipinti apparentemente monocromi, un passaggio radicale che racconta quella tensione tra astrazione e figurazione, amplificazione e sparizione dell’immagine che, in modi diversi, attraversa tutti i lavori di Roccasalva. È il titolo a svelare la natura di questi lavori, che sono allo stesso tempo delle imprimiture e dei d’après. Il d’après (dopo) è la versione rielaborata del lavoro di un altro artista, mentre l’imprimitura è la tecnica storicamente utilizzata per la preparazione del supporto pittorico, quindi il “primo” strato di un nuovo quadro. Questi dipinti sono tutti d’après di celebri quadri futuristi, che l’artista ha realizzato mescolando i pigmenti dei dipinti originali fino all’ottenimento di un unico colore, così da portarli ad uno stato di entropia e calma finale. Tutte prive di cornice, le tele lasciano in vista i loro bordi e i chiodi speciali, in oro massiccio, che le fissano al telaio. Se i dipinti rappresentano il gap temporale tra un prima e dopo, sono questi chiodi d’oro che – come i GSSP dei siti geologici che demarcano la transizione tra due ere – segnano questo passaggio tra due tempi. Gli stessi chiodi evocano i raggi solari: Roccasalva immagina i futuristi – per l’artista emblema dell’Antropocene – nel loro slancio verso il progresso fondersi come degli Icaro per essersi avvicinati troppo al sole.

Quello del sole è un motivo centrale nell’universo visionario di Roccasalva. Una delle immagini più iconiche del suo repertorio è quella di Giocondità, una cattedrale inabitabile e acefala con al posto della cupola uno spremiagrumi che ruota con la luce del giorno, visualizzando l’entropia e la graduale morte del sole. La cattedrale che tradizionalmente dà senso e ordine a tutto, ha una cupola che nello stesso tempo frantuma e dissolve quel senso e quell’ordine. In mostra una sequenza di sei dipinti – parte di un ciclo pittorico più ampio che proviene da un’animazione digitale del 2002 – ritrae la cattedrale da diversi punti di vista e in vari momenti della giornata, dall’alba al tramonto.

L’ultima opera è Fanfaro (2014): un fanciullo che gioca a mordere la coda di un varano, il quale a sua volta tiene tra gli artigli un arancino, elemento che ricorre nel lavoro dell’artista come immagine del sole morto. La scultura sembra il rovesciamento del “Ragazzo morso da un ramarro” di Caravaggio ma evoca tanto altro, per esempio il Putto sopra un Drago di Bernini, il drago cinese con la sfera fiammeggiante, ma anche il fanciullo-faro di cui parla Duchamp negli appunti su Il grande vetro.

La mostra dunque inizia con il sorgere del sole e finisce con la sua morte. Tra i due estremi c’è un percorso che è simile a un viaggio in un “mondo intermedio”, affollato di visioni tra le quali l’artista si fa spazio con ogni mezzo a disposizione, primo fra tutti la pittura.

Cerca altri articoli

On View