Lo scorso ottobre ha aperto alla Triennale di Milano “Pittura Italiana Oggi”, attesa rassegna a cura di Damiano Gullì che si propone di tracciare una prima panoramica della pittura italiana coeva. Un’impresa certamente ambiziosa, benché scevra di dogmatismi o intendimenti conclusivi, approntata su criteri precipui. Risultano centoventi, infatti, le artiste e gli artisti riuniti a comporre tale diagramma polifonico: centoventi voci per un totale di centoventi lavori. Una mostra, volendo avanzare una primissima considerazione in apparenza lapalissiana, che assegna una valenza strutturale alle immagini (picture), piuttosto che agli artisti, alle loro biografie, alle periodizzazioni interne e, almeno direttamente, ai loro posizionamenti. Il frangente cronologico prescelto, inoltre, dilata il campo puntiforme delimitato dall’avverbio “oggi,” ponendo le basi per un dialogo intergenerazionale lungo una quarantina d’anni, animato da figure nate tra il 1960 e il Duemila. Si tratta, ed è bene sottolinearlo sin da ora, di un’estensione accuratamente diplopica non esente da sottili criticità, dal momento che le suddette personalità appaiono di fatto immerse in una sorta di eterno presente – l’oggi, per l’appunto –, venendo invitate a presentare lavori realizzati tra il 2020 e il 2023.
Per quanto concerne l’allestimento, il display espositivo, biocompatibile e rimodulabile, spetta allo studio Italo Rota. Osservato in planimetria, e specialmente quale maquette, esso ricorda una sorta di rilegatura a fisarmonica che, snodandosi nello spazio, quasi fosse un grande libro per bambini con elementi a scomparsa, delinea un itinerario plasmato da pareti oblique, pedane calpestabili (a momenti disagevoli) e pensiline luminose (che non riescono del tutto a sopperire, tuttavia, alla scarsità di luce naturale delle sale). Entro tale display, che suggerisce un percorso di visita tendenzialmente consequenziale piuttosto che circolare, ai visitatori non viene esplicitamente imposto alcun itinerario tematico, in un’articolazione che, cionondimeno, le opere stesse reclamano. Trovando una eco anche nell’omonimo catalogo edito da Electa, i lavori paiono riflettere un’organizzazione di carattere iconografico incentrata su materie di scottante attualità, quali la costruzione polisemica di un corpo metamorfico, talvolta autoriale, non di rado collettivo; le rivisitazioni molteplici di mitemi antichi o futuribili; il sacro; la relazione con la natura; il rapporto con le storie dell’arte e i loro generi; il confine tra figurazione e astrazione; lo sconfinamento nello spazio. Indici, quelli sommariamente abbozzati, destinati a sovrapporsi, generando un continuo gioco di rimandi tra le opere.
Queste, in estrema sintesi, le premesse metodologiche di un’impresa in cui, per dirla con le parole di Gullì, “ciascuna individualità concorre a delineare una narrazione corale polifonica, in cui sottotraccia sono rilevabili attitudini e visioni comuni, seppur idiosincratiche.” Premesse che possono suscitare una discussione legittima e inderogabile – tra gli obiettivi dichiarati, peraltro, dell’iniziativa – tanto sugli artisti selezionati, e quindi su eventuali lacune o integrazioni, quanto più profondamente sui principi strutturanti un’esposizione che, altresì legittimamente, rinuncia a un’impostazione propriamente critica, prediligendo il modello planare della cartografia, sistema per sua stessa natura di rilevamento generale anziché di selezione complessa e a maggior ragione sofferta.
Questione ancora differente è quella di chiedersi che cosa questa rassegna dica circa la recente pittura italiana, ora provando appunto a sforzare il vaglio critico, senza sorvolare sul merito, affatto scontato, di aver avvertito l’urgenza di intavolare sul tema una rinnovata riflessione istituzionale. Una riflessione che ratifica alcune posizioni divenute assiomatiche. La prima, ordinaria: una mostra sulla pittura non può che scardinare qualsivoglia specificità mediale, pur mantenendo, allo stesso tempo, una disposizione pittorica: così il ghiotto tempietto di Edoardo Piermattei, il velario sonoro di Adelaide Cioni, i pannelli cartografici di Benni Bosetto, la tessitura ostensa di Bea Bonafini. Ne sussiste una seconda, maggiormente incalzante: ragionare sull’attualità della pittura in una prospettiva nazionale, ossia inevitabilmente globale, significa accostare, ancora una volta, la vita delle parole e delle categorie. Il che porta a ribadire, ove fosse ancora necessario, l’impiego solo apparentemente risolutivo di aggettivi quali figurativo o astratto. Se ciò si rivela particolarmente valido sul piano teorico, in un cortocircuito che la mostra coglie spazializzandone le sfaccettature – si pensi all’emersione progressiva di referenti in Marta Mancini, all’intersecazione tra mimetico e schematico in Margherita Manzelli e Luca Bertolo, ai processi di riduzione del reale di Marco Neri – lo sviluppo storico delle suddette nozioni si dirama in molteplici traiettorie, in un procedere fatto di corsi e ricorsi, di inflessioni dal valore culturologico e finanche stilistico.
E qui subentra un terzo livello di indagine. A fronte di quel fenomeno di proliferazione delle immagini così connotativo del tempo presente rimarcato con forza da Davide Ferri in catalogo, occorre rilevare come la pittura italiana riunita in mostra (ma il discorso potrebbe coinvolgere numerose sperimentazioni internazionali) sembri rigettare, almeno in via generale, un atteggiamento iconoclasta. Iconoclasta non negli esiti, bensì nelle premesse.
Parrebbero minoritari, in un rilievo preliminare che richiederebbe certamente ulteriori indagini, quelle artiste e artisti il cui lavoro muove dall’analisi radicale dei mezzi, delle possibilità e delle contraddizioni di un’immagine intesa quale processo di significazione piuttosto che come fatto compiuto. Una tensione per cui la distinzione figurazione-astrazione si rivela, ancora una volta, non solo sfuggente, bensì debolmente caratterizzante. Un approccio che sembrerebbe quanto mai contingente, estraneo e anzi opposto alla presunta autoreferenzialità modernista, in cui la narrazione (e non il racconto) è nella stratificazione densa del colore (Maria Morganti), nella sottrazione barocca (Daniele Milvio) e nella sommersione rivelatrice (Mario Silva), nella composizione di tracce che si posano sulla superficie-engramma infrangendola attraverso gli anni-luce, eventualmente autobiografici, delle storie dell’arte (Sofia Silva).
Predominante e straordinariamente articolata risulta un’attitudine che potremmo definire iconofila e che, viceversa, attesta il corpo a corpo con l’entità più pervasiva dell’odierna iconosfera: l’immagine. Benché non risulti affatto semplice, come puntualizza Gullì, decretare la formazione di “specifici gruppi,” si potrebbe forse registrare il delinearsi di alcune “tendenze” condivise. 1 Si assiste, da un lato, a un ritorno intergenerazionale (e notoriamente ciclico) alle maglie della storia e della storia dell’arte. Non tanto nella forma della liberatoria crasi postmodernista, quanto nel confronto formale con stilemi precipui – dalla koinè bizantina (Ismaele Nones) al vedutismo tardo-ottocentesco (Francesco De Grandi) – ed esperienze novecentesche talvolta riferibili all’alveo del pittorico [painterly] – di sapore surrealista con Agnese Guido, informale con Gianni Politi e Marco Cingolani, post-sessantottino con Francesco Lauretta. In un lembo ancora differente, a tratti metafisico, vengono inventati “realismi” altri (Giangiacomo Rossetti, Viola Leddi, Marta Ravasi) e intrecciate composizioni di segni rarefatti (Vera Portatadino, Sebastiano Impellizzeri). Parallelamente sussiste anche un movimento verso il fantastico e l’interspecifico avente disposizione solare o velatamente apocalittica (Flaminia Veronesi, Francesca Banchelli).
Dall’altro si affaccia netta la questione mediale. Benché l’esposizione non annoveri lavori digitali, l’influenza da esso esercitata affiora in filigrana nella stragrande maggioranza dei lavori esposti. Ciò può manifestarsi in un iperrealismo agonistico (Patrizio Di Massimo) e ancora nelle cartografie compulsate da un occhio-zoom (Chiara Enzo). Può condensarsi in un’analitica rigorosamente feticista dell’inquadratura (Giorgia Garzilli) e di quanto dovrebbe rimanere, per il nostro bene, invisibile (Valerio Nicolai).
Infine, sembra farsi strada una compagine di artiste e artisti in cui è proprio l’elemento mediale-tecnologico che concorre a creare (e spesso documentare) un senso di comunità inquieta, mediante l’adozione di strategie formali comuni quali autoritratti, scene corali performative, cromie notturne allucinate. Con Beatrice Marchi quale anticipatrice autonoma, si potrebbero annoverare Roberto De Pinto, Emilio Gola, Pietro Moretti, Giuliana Rosso, Davide Serpetti, Maddalena Tesser.
Quali parole chiave, dunque, per la pittura italiana oggi? Cosa ne qualifica l’attualità? Occorre immaginare nuove matrici di pensiero che consentano di accostare la vitalità del mezzo pittura in funzione del presente, oltre che della sua storia? La questione si direbbe vivacemente (e finalmente) aperta.