C’è un grande tavolo in un’ampia stanza al secondo piano del Magazzino 7 a San Basilio, una delle sedi dell’Università Iuav di Venezia. Attorno a quel tavolo, sorta di approdo per docenti, studenti, collaboratori ma anche perimetro per incontri inattesi, riunioni e avvio di nuove relazioni, si è concretizzata Dune, rivista nata dalle conversazioni e dalle urgenze disciplinari del gruppo di lavoro che a Iuav si dedica alla moda, al progetto, alla cultura visuale. Come scrivevo nell’editoriale del primo numero, questi campi non sono tuttavia i territori chiusi della pubblicazione ma sono ambiti che consentono di attraversare la contemporaneità nelle sue declinazioni più controverse.
Dune è per noi una zona di confronto in cui le domande prevalgono sulle risposte mentre viene esplorato l’argomento sintetizzato dalla parola di volta in volta in evidenza sulla copertina, scelto perché in quel determinato momento lascia intravedere interessanti possibilità di svolgimento di motivi, temi, forme. Insieme, Dune è perlustrazione dei modi attuali della scrittura, della critica, dell’uso dell’immagine.
Per questo numero abbiamo deciso di affrontare una riflessione sulla scrittura messa alla prova del saggio critico, tema che, nell’epoca della scrittura sui social, coincide peraltro con uno degli obiettivi fondanti della rivista. Abbiamo pensato di farlo deragliando dal format della rivista e costruendo un numero monografico dedicato al lavoro di Francesca Alinovi, una ‘artista della critica’ (ricorrendo al titolo di un libro curato da Maura Pozzati nel 2015):“una figura emblematica di un percorso scientifico che tuttora ha la forza di consolidarsi come ‘area d’azione’ imprescindibile dal tempo in cui si opera”, come ha scritto Fabiola Naldi (nel volume appena ricordato) citando un’espressione di Roberto Daolio.
Il film documentario del 2017 I Am Not Alone Anyway di Veronica Santi, il libro del 2019 Francesca Alinovi, che per la cura di Matteo Bergamini e della stessa Veronica Santi raccoglie buona parte dei suoi scritti, e infine il simposio Francesca Alinovi: militanza della critica d’arte e contaminazione dei linguaggi artistici, svoltosi nel febbraio del 2022 al MAXXI – Museo nazionale delle arti del XXI secolo, a cura ancora di Veronica Santi e di Paola Ugolini e promosso dalla Fondazione In Between Art Film, a cui ho partecipato, ci hanno convinto che sarebbe stato utile rimmergersi, attraverso la pubblicazione proprio degli atti del convegno di Roma, in una scrittura così personale e visionaria, impronta precisa di un periodo storico che tuttora segna la cultura contemporanea.
La rivista è un progetto dell’università: nella dimensione, così importante per noi, della condivisione e discussione con gli studenti, dedicare un numero della rivista ad Alinovi, che nella militanza plasmò la sua azione critica, è un modo per invitarli a ragionare su impegno e scrittura. Ha scritto Enzo Golino (in Sette modi di fare critica, 1983): “In modo più mediato e sottile, si può essere critici militanti nella scuola – luogo deputato alla trasmissione del sapere e quindi alla formazione degli allievi – anche orchestrando la scelta dei libri di testo, l’adozione di un classico piuttosto che di un altro”.
Questo è dunque un numero dedicato a un’autrice che, nell’intensità emotiva dei suoi scritti, nel coraggio anche fisico per arrivare all’incontro con l’artista e la sua opera, nella ripetuta rivendicazione del suo personalissimo punto di vista, nella radicalità delle sue scelte, ha segnato la critica della fine degli anni settanta e dei primi anni ottanta. Arte, cinema, musica, fotografia, moda, design, teatro, performance hanno trovato nei suoi testi una dimensione di scambio e confronto capace di restituire la vitalità di un momento curioso, capriccioso, creativo, vorace, in cui il punk e il barocco stavano insieme e in cui la vita di ciascuno era unica e speciale, essa stessa opera d’arte.
La vita di Francesca Alinovi con la sua tragica fine è diventata cronaca che ha estremizzato l’iconicità del personaggio e che ha preso il sopravvento sul suo lascito e sul reale valore di un lavoro affermatosi all’interno di un sistema, quello italiano dell’arte, allora dominato da figure maschili che hanno segnato l’approccio alla critica e alla curatela (basti fare i nomi di autori carismatici a livello internazionale come Germano Celant e Achille Bonito Oliva). Francesca Alinovi non ha avuto paura di manifestare il proprio coinvolgimento emotivo nel suo rapporto con gli artisti e nella restituzione del loro lavoro. Formatasi all’università di Bologna con Francesco Arcangeli prima e con Renato Barilli poi, aveva iniziato il suo percorso con ricerche su Lucio Fontana e lo spazialismo, Piero Manzoni, la fotografia, il dadaismo, la performance, per poi radicalizzare nelle intenzioni e nelle azioni la militanza critica, spostando i suoi interessi e innescando una trasformazione personale diventata anche fisica.
C’è da dire che la vita al massimo di Francesca Alinovi spesso prevale emotivamente nella nostra percezione anche a distanza di tanti anni. “Quel che piace a me” o “L’arte mia” sono statement divenuti manifesti di un modo di tramutare le ossessioni e i desideri in uno spazio performativo
in cui la vita si trasforma in arte, in moda. Sorta di romanzo visuale dal doppio movimento di una meraviglia del guardare e dell’essere guardati.
Così può capitare che una specie di nostalgia di un tempo tanto diverso dal nostro, in cui l’avventura della vita e dell’impegno era esperita nella materialità dei corpi, prenda il sopravvento. Per quanto ci riguarda l’intenzione è stata quindi anche quella di posizionare in una giusta prospettiva storica e teorica il lavoro seminale di una figura rivoluzionaria nel panorama della critica italiana.