PAC Padiglione d’Arte Contemporanea di Milano presenta “Race Traitor” la prima retrospettiva europea dopo oltre vent’anni dedicata all’artista Adrian Piper (1948, New York), vincitrice del Leone d’Oro come miglior artista alla Biennale di Venezia 2015.
La mostra è tra gli eventi principali di Milano Art Week (8 – 14 aprile 2024), la manifestazione diffusa coordinata dal Comune di Milano in collaborazione con miart, la fiera d’arte moderna e contemporanea di Milano, che mette in rete le principali istituzioni pubbliche e private, con un programma denso di attività e progetti, arricchendo il panorama culturale della città con eventi collaterali che riconfermano Milano come luogo privilegiato per l’esplorazione e l’indagine dei linguaggi contemporanei. “Race Traitor” ripercorre oltre sessant’anni di carriera di Adrian Piper, con importanti prestiti internazionali provenienti dai più prestigiosi musei del mondo, tra i quali il MoMA e il Guggenheim di New York, il MoMA di San Francisco, l’MCA di Chicago, il MOCA di Los Angeles e la Tate Modern di Londra.
Affermatasi come artista concettuale, minimalista e performer nella scena artistica newyorkese degli ultimi anni Sessanta, Adrian Piper solleva domande spesso scomode sulla politica, sull’identità razziale e di genere, e chiede alle persone di confrontarsi con verità su sé stesse e sulla società in cui vivono. Fulcro della sua pratica filosofica, artistica e attivista è il concetto di lotta permanente contro il razzismo, la xenofobia, l’ingiustizia sociale e l’odio.
Risultato di un lavoro di ricerca e di indagine senza precedenti, iniziato nel 2019, che colloca il PAC al centro della scena artistica internazionale, la mostra riunisce oltre cento opere tra installazioni, video, fotografie, dipinti e disegni dalle quali emerge l’analisi della “patologia visiva” del razzismo e l’immagine delle persone afroamericane determinata dalla società e dai tanti stereotipi diffusi.
Un’indagine mirata sui temi particolari della “razza” e del genere, contestualizzati dalle pratiche formali dell’arte minimale e concettuale che la produzione di Piper degli esordi ha portato verso questi temi, e che ora l’artista considera come un’arma a doppio taglio: il suo approccio alla lotta al razzismo americano è anche parte del processo di liberazione di se stessa e della sua persona dalla morsa malata della “razza” che ha sperimentato consapevolmente per la prima volta quando ha iniziato l’istruzione superiore negli Stati Uniti. In quanto artista donna e filosofa, il lavoro di Piper restituisce inoltre le esperienze relative al sessismo e alla misoginia subite. In questo senso la sua ricerca ha ispirato intere generazioni di artiste contemporanee.
Il percoso si apre con gli “LSD paintings”, disegni e opere pittoriche figurative realizzate in giovanissima età, ancor prima di arrivare alla School of Visual Arts – SVA di New York, che testimoniano il tentativo di guardare oltre la superficie delle cose, pratica che Piper ha perseguito sin da subito anche attraverso la frequentazione di letture filosofiche e spirituali vediche, la meditazione e lo yoga. La concentrazione profonda sul soggetto porta a far vibrare le superfici fino a frammentarle come accade per esempio in LSD Self-Portrait from the Inside Out. Il nesso con la controcultura degli anni Sessanta, che l’artista frequentava in quel periodo, è evidente nel trittico dedicato ad Alice in Wonderland. Un esplicito richiamo all’ambiente dell’epoca, nel quale l’opera letteraria di Lewis Carroll era particolarmente apprezzata.
L’idea di esistere in qualità di oggetto attivo nel tempo e nello spazio si manifesta nella prima performance pubblica dell’artista, impegnata all’epoca in una ricerca più strettamente concettuale. Prefiguratrice di quanto la consapevolezza politica diverrà importante nel percorso di Piper, l’opera Five Urelated Time Pieces (Meat into Meat) del 1969, prende le mosse da una performance privata durata tre giorni e racconta le contraddizioni di una relazione domestica in cui lei stessa, una donna che si avvia al vegetarianismo e inizia a interessarsi al femminismo, prepara il pasto, fatto di carne animale, per il suo compagno dell’epoca, David Rosner, un marxista convinto e politicamente impegnato. Untitled Performance at Max’s Kansas City è stata realizzata nel 1970 all’interno dell’eponimo bar in occasione del “The Saturday Afternoon Show”. Come si vede nelle foto che documentano l’accaduto, Piper, isolando se stessa dall’ambiente circostante attraverso l’ottundimento dei sensi grazie a guanti, paraocchi, tappa-naso, tappi per le orecchie ecc., si muoveva tra i tavoli e gli avventori del bar, seguita dalla fotografa. A seguito di questa esperienza, nel tentativo di misurarsi davvero con un pubblico inconsapevole e non deputato all’arte, nello stesso anno Adrian Piper inizia ad agire nello spazio urbano. Nascono così le Catalysis, in cui lei stessa diventa oggetto catalizzatore delle reazioni altrui.
È poi con la performance del 1975 Some Reflected Surfaces che si afferma l’importanza della danza all’interno della ricerca artistica di Adrian Piper, nel contesto del graduate student lounge dell’Harvard Philosophy Deparment. Qui fa la sua apparizione una versione transgender dell’alter ego maschile dell’artista (The Mythic Being, nato nel 1973) che indossa baffi, parrucca e occhiali da sole. L’obiettivo è quello di esplorare le possibilità dell’esperienza di qualcuno con la sua stessa storia genetica, quella di riconosciuta discendenza africana, ma con un genere e un aspetto esteriore diversi dal suo. The Mythic Being diviene una presenza ricorrente nell’opera di Adrian Piper fino al 1976.
Con l’installazione Art for the Art World Surface Pattern, del 1976, la consapevolezza politica fa il suo ingresso definitivo nella produzione dell’artista. All’interno di un cubo bianco, dall’aspetto minimalista, si trova un ambiente interamente tappezzato di immagini tratte dai giornali che riportano vari tipi di atrocità avvenute nel mondo. Su queste foto l’artista imprime provocatoriamente la scritta “Not a Performance”, mentre un audio trasmette la sua voce che imita la tipica indifferenza dello spettatore del mondo dell’arte verso questi accadimenti.
Del 1989 è invece Cornered, un’opera che incita a scavare oltre le convinzioni rispetto alla propria classificazione identitaria. Nel monologo contenuto in quest’opera è Piper stessa, nel monitor di una TV posta tra due certificati di nascita, a parlare dei complessi meccanismi legati alla determinazione razziale e della storia del meticciato. Davanti al video una platea di sedie ordinatamente allineate formano un triangolo che richiama alcune opere del primo periodo.
Nel 1991 la stampa statunitense si occupò del caso di Anita Hill, una giovane avvocata afroamericana che testimoniò di aver subito molestie sessuali da Clarence Thomas, afroamericano nominato alla Corte Suprema degli Stati Uniti. Il dibattito mediatico, che ebbe anche risvolti razzisti, arrivò a travisare la posizione della vittima facendone una seduttrice e il caso fu tra gli eventi che innescarono l’avvio della terza ondata del femminismo internazionale. La fotografia di Hill all’età di 8 anni, sovraimpressa a un testo in cui Piper riporta commenti censori, è l’elemento costante nella serie Decide Who You Are, del 1992.
In mostra anche l’installazione ambientale What It’s Like, What It Is #3 quarta versione del lavoro prodotto quando viene invitata da Robert Storr a partecipare alla mostra Dislocations al MoMA. L’ambiente minimalista ricorda l’architettura museale asettica in cui vengono generalmente esposti degli oggetti a pubblica vista e al contempo un’arena di epoca romana, con gradinate su cui è possibile disporsi. Nella sala Piper colloca il video di un afroamericano offerto allo sguardo del pubblico, inscatolato in un parallelepipedo al centro della scena, mentre nega una serie di stereotipi sulla propria identità.
Non mancano in mostra anche alcuni dei suoi ultimi lavori, come l’installazione Das Ding-an-sich bin ich del 2018, il cui titolo fa riferimento al noumeno kantiano, una realtà che si trova al di là di ciò che appare ai nostri sensi. In quest’opera si ritrovano condensati gli elementi principali che hanno attraversato la ricerca di Piper a partire dagli anni Sessanta fino a oggi: il riferimento diretto alla filosofia e, dal punto di vista linguistico, le forme geometriche e la struttura della griglia a pavimento delle prime indagini concettuali. Su di essa sono disposti otto parallelepipedi a base quadrata con le pareti a specchio, come a voler chiamare in causa il visitatore e renderlo ancora una volta parte dell’opera. Da questi volumi fuoriescono voci che parlano farsi, arabo, islandese, ebraico, turco, gaelico, hindi o somalo. In opere come questa è più che mai evidente come Adrian Piper sia stata capace di portare, all’interno della riflessione concettuale e dell’estetica minimalista, il discorso politico sulla società e in definitiva sull’essere umano. Anche nella serie fotografica Race Traitor, sempre del 2018, che dà il titolo alla mostra, Piper utilizza il proprio ritratto sovrapponendolo ad alcune frasi con l’intento di ironizzare sulla convinzione secondo cui l’aspetto di una persona possa definirne l’identità.