Joshua e Yoel: gli ebrei erranti dell’arte
Da ragazzo tredicenne fui rapito da un libro che mi capitò tra le mani, non so come: L’ebreo errante, romanzo di appendice, di cui non ricordo nemmeno l’autore. Ma da quel momento fui attratto e in parte ossessionato dalla figura del protagonista, appunto un ebreo, che instancabilmente e in cerca di miglior fortuna, vagava senza soste per l’Europa. E da allora, nella mia fantasia di ragazzo di campagna, la figura dell’ebreo era accomunata a quell’errare tumultuoso, con persecuzioni o insidie sempre in agguato.
Ma curiosamente negli anni ottanta quella figura si materializzò. Di fronte a me, in redazione in via Donatello 36 qui a Milano, arrivarono due personaggi ironici e sornioni che si presentarono come collezionisti d’arte e che dopo i soliti convenevoli, invitarono me e Helena a cena nel loro albergo, l’Hilton, poco lontano da casa nostra. Joshua e Yoel, ci spiegarono che erano due curiosi e determinati collezionisti d’arte israeliani in giro per il mondo. E siccome viaggiavano senza sosta incontrando artisti, galleristi, collezionisti, direttori di musei ovunque, volevano conoscerci. E ci raccontarono la loro vita. Joshua, il vero collezionista-investitore, pur essendo nato poverissimo in un kibbutz, madre single e padre sconosciuto, adottato da una famiglia di origine cecoslovacca, a New York riuscì ad affermarsi come modello di una azienda di abbigliamento che poi acquistò diventando un imprenditore di successo. Successivamente aveva venduto la sua azienda (per oltre un milione di dollari degli anni ’70), per dedicarsi agli investimenti in borsa, di cui era un attento osservatore, e al collezionismo d’arte, con il suo amico e partner (di famiglia polacca), Yoel Kremin, giovane pittore talentuoso ma che a seguito della loro vita errante, non è riuscito a mettere radici artistiche. Erano passati da noi per monitorare l’arte italiana, a quei tempi con la Transanvanguardia in poppa e con successi internazionali travolgenti. Volevano invitare Mimmo Paladino, star del momento, in Israele, per realizzare un portfolio di grafica molto speciale e pregiato. Ma Mimmo, grande artista un po’ stanziale, non sposò la prospettiva di vivere alcune settimane forse mesi in Israele in cerca di ispirazione. I miei nuovi amici realizzarono invece, dietro la maniacale guida di Yoel che peraltro è anche un ottimo cuoco, un eccezionale portfolio di grafica di A. R. Penck che esaurirono presto nel loro girovagare, offrendolo a gallerie, privati, musei, collezionisti. Con notevoli profitti, immagino. Prima di acquistare le opere di un artista, i miei amici, chiamati benevolmente anche il gatto e la volpe, erano soliti frequentarlo assiduamente, seguirlo nella vita privata, in studio e nelle mostre, ovunque queste si tenessero. Avevano con l’artista discussioni anche martellanti credo, conoscendoli. Ma dell’artista di cui intendevano acquistare un gruppo di opere, volevano sapere e conoscere tutto. Spesso offrendo consigli di strategia anche ossessivi.
Negli anni ’80 e ’90 furono tra i protagonisti di Art Basel dove conoscevano tutti i galleristi e molti degli artisti rappresentati. Evitavano di avvicinarsi al mainstream dell’arte, forse per amore della scoperta e dello ius primae noctis o per una atavica predisposizione al risparmio. Ricordo che entravano e uscivano gesticolando dagli stand delle varie gallerie, spesso dopo aver acquistato qualche opera ma soprattutto aver discusso animatamente con il titolare. Perché i miei amici sono dei grandissimi rompiscatole e vogliono pontificare su tutto perché loro sanno sempre tutto. Come ogni bravo israeliano che si rispetti. Ma sono stati tra i primissimi ad acquistare e dare visibilità, nei loro incontri con musei e collezionisti a Rosemarie Trockel e Marlene Dumas (e tra i primissimi a dare credito a molte artiste donne). Della Dumas, Joshua mi disse che nel tempo avevano acquisito circa duecento opere, tra dipinti e opere su carta. Ma tutto questo quando la famosa e (oggi) costosa Marlene non era conosciuta ed era appena arrivata dal Sudafrica ad Amsterdam. Da quel momento hanno seguito la Dumas in qualsiasi mostra, in musei o gallerie per decenni, capitalizzando un investimento oggi milionario. Lo stesso hanno fatto con Mary Heilmann, Inge Mahn, Mark Wallinger, Nicole Eisenman e altri artisti. Nella loro collezione non sono mancate delusioni cocenti, come nel caso di Siegfried Anzinger, negli anni ’80 promettentissimo (e tutt’ora bravissimo) pittore, per ragioni inspiegabili rimasto al palo. Eppure aveva anche ottime gallerie che lo rappresentavano. Ma forse il suo carattere introverso, la sua situazione familiare, con una moglie pittrice e brava quasi quanto lui, ha forse generato una competitività letale per entrambi. Mi spiace per il bravissimo Siegfried, su cui Joshua (ma anche io) scommetteva molto. E Joshua ha acquistato centinaia di Anzinger, ora quasi senza alcun valore commerciale e destinati come donazione a qualche periferico museo israeliano. Ma di queste storie, di artisti bravissimi e restati nell’ombra per qualche errore caratteriale e di strategia o per sfortuna, ne ho conosciuti centinaia e potrei scrivere dieci libri.
In una edizione di Art Basel Joshua tentò con uno spericolato gioco di insider, di promuovere un artista di cui non ricordo nemmeno il nome, con soffiate allusive. E cioè sussurrando che il tale artista era nelle mire delle più importanti gallerie internazionali. Ci fu un momento in cui numerose gallerie caddero nel gioco, cercando di acquistare l’artista sconosciuto all’insaputa dei colleghi. Poi non ricordo come ma il gioco delle tre carte venne scoperto e tutto finì in una bolla di sapone, tra sorrisi maliziosi o commenti indignati. Di cui i due bulldozer, abituati a ben altro, non tennero alcun conto.
Ma i miei amici seguivano anche il mercato secondario e acquistarono tra gli altri numerose opere di Andy Warhol e Gilbert & George. Ricordo che in una edizione di Art Basel ne acquistarono un numero considerevole da Bruno Bischofberger a cifre che a me in quegli anni sembrarono pazzesche (e Bischofberger non concedeva sconti di quantità) e invece in seguito si sono rivelati investimenti incredibili.
La mia curiosità mi portò a chiedere dove tenessero la loro collezione perché io e Helena volevamo visitarla, visto che erano sempre in viaggio e nella loro casa a Tel Aviv dove soggiornavano raramente e che noi visitammo, avevano solo qualche opera di artisti locali. Alla mia richiesta Joshua mi mostrò una serie di bellissimi fotocolor che teneva sempre in borsa e mi disse: “ecco la nostra collezione. Gli originali sono in un porto franco presso uno spedizioniere alla dogana di Zurigo che provvede ad inviarli alle mostre nei musei o alle case d’asta su nostra richiesta”. Insomma, i miei amici collezionisti potevano ammirare le loro opere d’arte raramente e fuggevolmente e solo quando si recavano in dogana. Per il resto sgranavano gli occhi e si appagavano con dei magnifici fotocolor 18×24 cm. La cosa in quel momento mi sorprese ma poi capii che loro, come tanti e come me oggi, conservano la loro collezione lontana dagli occhi ma perennemente nella testa. Sono lontani i tempi dei grandi collezionisti storici che affollavano le pareti della cucina o della sala da pranzo con piccole tele di Klee, Kandinsky, Morandi, Picasso creando una quadreria raffinata ma affumicata dalle pentole della cucina. Oggi una rispettabile collezione d’arte richiede opere anche di grande dimensione e dunque spazi enormi. E allora, l’idea dei miei amici di tenere al sicuro le opere in un porto franco svizzero, curate, assicurate e sempre pronte a viaggiare nel mondo per il piacere dei proprietari e di tutti e permettendo loro di vivere voluttuosamente in grandi alberghi e centri benessere raffinati, oggi mi sembra un’idea vincente, figlia del nostro tempo. L’arte deve contribuire anche alla gioia di vivere, non solo ad appagare le nostre ambizioni intellettuali.
Ma ora la collezione, messa insieme con tanto impegno e caparbietà, non avendo loro eredi, e loro stessi appesantiti dall’età e dal buon cibo, sta finendo sul mercato e in parte (la meno vendibile) donata a qualche museo israeliano da cui avranno riconoscenza duratura. Perché tutte le avventure grandi e belle, anche le più esaltanti, come la vita, hanno un inizio e una fine.
Con Joshua e Yoel abbiamo trascorso anche vacanze memorabili, come nella splendida Grimaud, sulla Costa Azzurra e all’altrettanto affascinante Ortigia. Ma loro furono anche nostri ospiti a Trevi. Di quella visita Joshua, il gaudente, ricorda ancora l’indimenticabile coniglio al forno di mia madre, Arduina, bravissima cuoca di casa senza ambizioni da chef, come tutte le donne umbre di allora.
Ma qui stiamo scendendo troppo nel personale e non va bene. Alla prossima cari amici.