Andare a fondo

1 Marzo 2024

In occasione della mostra antologica dedicata a Carla Accardi nel centenario della sua nascita, presso Palazzo Esposizioni Roma, ripubblichiamo l’iconica conversazione tra l’artista italiana e Hans Ulrich Obrist, pubblicata originariamente su Flash Art International no. 260, May – June 2008.

Carla Accardi nel suo studio a Roma, 1974 circa. Fotografia di M. Grazia Chinese. Courtesy Museo del Novecento, Milano.

Hans Ulrich Obrist: La mia prima domanda riguarda la Sicilia: come hai cominciato nell’arte in Sicilia. Commencer par le commencement.
Carla Accardi: I miei inizi sono stati in Sicilia. Ho iniziato a fare disegni a undici anni, con la tipica vocazione infantile. Ho fatto a quell’età dei ritratti a china di amici e compagni, poi a sedici anni ho fatto il mio primo autoritratto. Studiavo la storia dell’arte per conto mio anche se frequentavo il Liceo Classico. Poi sono andata a Palermo e ho conseguito la maturità artistica. Sono stata a Palermo due o tre mesi. Dopo ho pensato di andare a Firenze, che era per me una meta importante. Li ho incontrato Antonio Sanfilippo, che poi ha fatto parte del gruppo Forma Uno, come me. Anche l’Accademia di Firenze mi ha deluso presto.

HUO: All’Accademia quali erano le tendenze?
CA: Erano concentrate sull’arte italiana di allora, mentre contemporaneamente in Europa c’erano Kandinskij, Klee e Mondrian. A quell’epoca, dopo la guerra, i futuristi erano già passati e le tendenze erano tutte figurative del tipo “rappel à l’ordre”. Visto che l’Accademia mi deludeva, andavo a copiare Beato Angelico nel Convento di San Marco, oppure andavo sull’ Amo. Poi Sanfilippo mi disse che aveva degli amici interessantissimi a Roma…

HUO: E tutto questo nel ‘46.
CA: Si, nel ‘46. Scrissi una lettera ai miei genitori dichiarando che non volevo più studiare e sono venuta a Roma. Li ho conosciuto Turcato, Consagra, Perilli e Dorazio.

HUO: C’era dunque un contatto tra generazioni differenti?
CA: Si. Severini veniva però solo a fare qualche visita perché abitava a Parigi. C’era Prampolini che stava in mezzo ai giovani. Nel ’47 abbiamo formato un gruppo per metterci al passo con le tendenze europee.

HUO: Mi hai parlato di un Art Club importante per voi. Lo frequentavate prima del gruppo?
CA: No, contemporaneamente. L’Art Club riuniva diversi artisti di quell’epoca.

HUO: E gli incontri avevano luogo anche negli studi degli artisti?
CA: Sì, specialmente nello studio di Consagra. Dopo che abbiamo pubblicato la rivista Forma Uno e fatto una mostra del gruppo, anche se giovanissimi abbiamo suscitato a Roma grande attenzione perché il nostro era il primo gruppo del dopoguerra; poi ci sarebbero stati Origine e il Gruppo degli Otto. In quegli anni ho conosciuto anche Colla. Andavamo spesso al suo studio, dove abbiamo fatto anche una mostra-omaggio a Leonardo da Vinci.

HUO: Una mostra del gruppo?
CA: Non solo, perché c’erano anche quelli del gruppo Origine.

HUO: Le frontiere del gruppo erano, dunque, fluide?
CA: Un po’ fluide, ma c’era anche l’identità specifica da conservare. Il gruppo Origine era formato da Burri, Ballocco e Colla. Il nostro da Turcato, Consagra, Sanfilippo, Dorazio, Perilli e me. Poi, dopo due o tre anni, ognuno ha scelto la propria strada e io, dopo alcuni anni di ricerca, sono passata ai quadri “bianchi e neri”.

HUO: Era l’inizio degli anni Cinquanta?
CA: II ’54. In quell’anno ho fatto molti quadri colorati con segni che iniziavano ad apparire, ma ho fatto anche due o tre quadri in bianco e nero. Allora ho conosciuto Michel Tapié.

HUO: Qual era la tua posizione verso l’Informale? C’era un dialogo tra Parigi e Roma?
CA: Si, anche se ognuno sceglieva i propri artisti di riferimento. Con Tapié ad esempio ho esposto alla galleria Spazio di Roma: lui aveva scelto dei miei quadri per farmi esporre con altri italiani come Burri, Capogrossi, Fontana e Moreni, e successivamente mi ha fatto firmare un contratto con la galleria Stadler di Parigi che esponeva i giovanissimi di allora. Li ho fatto la mia prima personale. Cercavo i miei riferimenti sempre negli artisti più astratti. Mi piacque molto Hartung, che andai a trovare nel suo studio.

HUO: E qual era il rapporto con Fontana?
CA: Lui mi stimava e io lo ammiravo moltissimo. Una volta mi scrisse una lettera con dei suoi pensieri. Fu molto importante per me. Ho visto le sue prime opere alla Biennale. Anch’io esposi alla Biennale prestissimo con un piccolo quadro, all’interno del nostro gruppo.

HUO: Penso che non sia giusto parlare del tuo lavoro senza fare riferimento all’Informale, ma è vero che c’è qualcosa di più costruito nelle tue opere, i tuoi non sono segni spontaneistici…
CA: È vero, non avevo fiducia nello spontaneismo automatico. C’era in effetti un certo automatismo quando mi mettevo per terra a disegnare o dipingere bianco su nero, ma mi piaceva avere un controllo su quello che facevo. L’Informale mi sembrava facile e ripetitivo perché era diventato di moda, purtroppo. Quando facevo i quadri bianco e nero partivo dal segno. Dalle tempere su carta nasceva un mondo di segni e strutture, di integrazioni. Poi i segni avevano un “ritorno”, cioè ritornavano cambiati, trasformati. Li ripetevo, collegandomi al lavoro precedente, ma c’era sempre qualcosa di nuovo.

HUO: C’era una traduzione del disegno.
CA: Si. Quando facevo un quadro poi ne facevo un altro nuovo prendendo spunto da quello precedente; veniva fuori sempre qualcosa di diverso. E quella era la cosa più importante di quel quadro.

HUO: E qual era il punto di partenza per i segni bianco e nero?
CA: Dopo aver visitato lo studio di Hartung ho iniziato con dei segni larghi che si incrociavano. Poi sono passata ad altri segni miei, senza più ispirarmi altrove.

HUO: Ma c’è anche un filo rosso che attraversava le opere, dall’inizio fino alle più recenti: questo elemento scientifico che fa pensare a elementi cellulari, microstrutture biologiche.
CA: Percorrevo due strade: una di tipo scientifico-biologica, con amebe che crescevano o diminuivano, e un’altra di tipo più geometrico: anche se comparivano delle curve avevano una freddezza maggiore.

HUO: C’è un’oscillazione tra il tipo più costruttivo e quello più organico. Fino a quando questo processo è continuato?
CA:Fino al ‘60. Poi ho cominciato a usare il grigio, per due o tre anni. In seguito sono arrivata ai segni archiviati, ho abbandonato il bianco e nero e ho iniziato a usare il colore in modo contrastato, basandomi sullo stesso concetto del bianco e nero. Avevo sempre l’aspirazione dell’antipittura: non ho mai fatto sfumature né ho mai dipinto su cavalletto, ma in orizzontale, per terra o sopra un tavolo.

HUO: È interessante la tua idea dell’albero perché nella tua opera le radici degli alberi sono diventate totalmente orizzontali. Voglio farti un’altra domanda: l’aspetto pop ti piaceva?
CA: Sì, mi piaceva anche l’aspetto pop, e ancora non conoscevo Pollock.

HUO: Che rapporto c’era con l’America in quel momento?
CA: C’era un dialogo con l’America, soprattutto dopo aver conosciuto Pollock a Roma. Mi era piaciuto molto per il suo modo di lavorare.

HUO: Hai ripreso il colore dopo gli anni del bianco e nero?
CA: Sì, però un nuovo colore in un modo molto particolare. Dopo sono passata al colore fluorescente. Nel ’64 ho fatto una sala alla Biennale; era stato Fontana a fare il mio nome.

HUO: Lucio Fontana era curatore?
CA: Fontana quell’anno faceva parte della giuria. Cominciai a lavorare a Torino, con Luciano Pistoi. A Roma non avevo più una situazione favorevole; ho quindi optato per Torino e Parigi.

HUO: Quando iniziano i lavori con la plastica? E come è avvenuto questo transito così deciso?
CA: Nel ’65. Il transito è avvenuto facendo i quadri fluorescenti. Provocavo la luce con il colore e ho pensato: perché non provocare la luce anche con un materiale? Ho trovato il sicofoil, che è un materiale trasparente e luminoso. Altri poi sono passati al neon.

HUO: C’è una grande discussione in atto su chi ha usato per primo il neon.
CA: Dan Flavin!

HUO: Conoscevi Luciano Fabro?
CA: Certo. Sia lui che Paolini erano nella galleria di Pistoi.

HUO: Significa che c’era uno scambio di idee.
CA: Sì, c’era anche Carla Lonzi.

HUO: Tu sei stata amica fin dall’inizio degli artisti dell’Arte Povera?
CA: Si, a Torino. C’è una tesi di laurea che tratta questo argomento specifico.

HUO: Questi ambienti, queste Tende… ho visto Ambiente Arancio da Zerynthia a Roma l’anno scorso. La cosa incredibile è il rapporto arte/vita. Allan Kaprow ha scritto un libro in cui parla di “changement”, dell’annullamento delle frontiere tra arte e vita. Sarebbe interessante se mi potessi parlare del dibattito degli anni Sessanta riguardo al rapporto arte/vita.
CA: Arte e vita per me erano parallele. Da un lato mitizzavo l’arte, dall’altro desideravo scoprire cosa c’era dietro e desideravo che le persone non fossero così bloccate davanti all’opera, volevo che il pubblico amasse l’arte scoprendo che dietro c’era la vita; ma principalmente volevo essere un’artista della mia epoca, volevo scoprire cosa fosse la contemporaneità.

HUO: Ambiente Arancio non è una tenda ma un ombrellone con un letto. Si crea una situazione che rimanda a una casa che serve per dormire.
CA: Non mi piacevano le case esistenti. Ero stata un’ammiratrice del Bauhaus ma vedevo che la gente viveva in case di cattivo gusto. Così ho pensato di fare un ambiente che desse l’esempio di un vivere rarefatto, spirituale.

HUO: Mi hai detto che Ambiente Arancio è nato da una reazione d’insofferenza.
CA: Certo, per me significa spingere la gente a vivere in modo differente, naturale. Non c’era un’idea filosofica-ideologica dietro, c’era solo l’idea d’immagine, di stanza, di spinta verso qualcosa di sconosciuto che poteva diventare un vivere diverso ma era, prima di tutto, fantasticheria.

HUO: Quindi non è un modello applicabile?
CA: Se lo applichi si banalizza tutto. In seguito ho fatto dei quadri tagliati, trasparenti, dove il segno scompare. Il mio segno segue un processo: passa dal bianco e nero al colore, fino alla trasparenza. Anche il segno è diventato anonimo. Prima era ricco iconograficamente, vanato. Dopo diventa anonimo, e poi scompare.

HUO: La tua opera è un processo evolutivo non lineare. De Landa parla di mille anni di storia non lineare e penso che questa idea sia anche nel tuo lavoro. Abbiamo parlato dell’Informale… altri critici hanno messo in risalto il rapporto con la Pop Art…
CA: Sì, perché quando raggiungo una cosa sicura voglio sempre mettere alla prova me e gli altri scappando e facendo una cosa diversa.

HUO: Volevi rompere dei cliché?
CA: Non volevo diventare retorica.

HUO:Penso anche che questo sia il motivo per cui ci sono tanti giovani artisti che ammirano il tuo lavoro, per questo motivo c’è un dialogo con la giovane generazione.
CA: Esatto.

HUO: Che cosa ha stimolato il terzo grande capitolo del tuo lavoro, un nuovo transito sulla tela. Quando e come è successo?
CA: Ero passata dal bianco e nero al colore fluorescente al sicofoil. A un certo punto mi sono detta: ma non c’è nessun nesso tra questi lavori, è pazzesco! Devo chiarire la cosa agli altri. Avevo fatto un lungo cammino e ho sentito il bisogno di dare maggiore coesione a tutto il mio lavoro. Questo mi ha spinto a sperimentare nuove strade. Sono andata a cercare della tela grezza e ho creato di colpo quadri di grandi misure: dittici. Ognuno aveva un’immagine. Su invito di Giovanni Carandente li ho mostrati alla Biennale di Venezia. Questi grandi quadri sono molto diversi da quelli del passato, ognuno ha un suo gioco particolare.

HUO: Molti artisti degli anni Novanta mi hanno detto che per loro è stato molto importante la dimensione del femminismo nel tuo lavoro. Vorrei domandarti soprattutto del tuo dialogo con Carla Lonzi.
CA: Con Carla Lonzi ho avuto più che una amicizia.

HUO: Una complicità?
CA: Abbiamo rivisitato insieme le artiste del passato, Angelika Kauffmann, Artemisia Gentileschi… Penso che l’astrazione sia stata favorevole per me in quanto donna. Nei secoli c’erano state pochissime artiste donne e non avrei potuto identificarmi con un’iconografia particolare, perché la storia dell’iconografia era incentrata sul protagonismo maschile. Poi mi sono distaccata da queste istanze femministe perché ho pensato che ero nata donna per caso, mentre non ero nata artista per caso, e allora ho detto: basta, non ci pensiamo più!

HUO: In quel momento c’era una dimensione vicina a quella di Nancy Spero e delle altre donne che in America avevano creato delle strutture dove si presentavano le artiste donne.
CA: Eravamo al corrente di tutto, abbiamo anche messo su una piccola galleria dove abbiamo organizzato qualche mostra. C’erano delle giovani, facevamo delle riunioni, ma alla fine me ne sono andata perché quelle discussioni tendevano a bloccarmi.

HUO: È diventata una questione di anti-arte in un certo senso?
CA: Non lo so. Io ho voluto trovare la mia arte, che per me era ragione di vita.

HUO: Negli anni Novanta la maggior parte degli artisti interessanti sono donne: è fantastico.
CA: Sì, perché oggi ci sono dei bisogni diversi che le giovani artiste vogliono esprimere.

HUO: C’era allora un dialogo con le posizioni del femminismo francese e americano?
CA: Abbiamo letto i loro libri e siamo andate a incontrarle a Parigi. Avevamo dei gruppi a Roma, a Milano, a Torino e a Genova da cui però poi, come ti dicevo, mi sono allontanata.

HUO: C’è stata quindi la volontà di dividere il percorso dell’arte da quello politico, Come vedi dunque la dimensione politica nell’arte?
CA: Dalla politica ho avuto delle delusioni che mi hanno fatto capire che l’arte è lontana dalla politica. Ho creduto in un impegno politico ma quando prendi contatto con gli specialisti della politica non c’è più comprensione perché credo che ognuno abbia un suo linguaggio, un suo modo di esprimersi. Non sono per il “multimediale”, penso che veramente si debba andare a fondo di una cosa per cavare un senso profondo e significativo.

HUO: Usare come ultima frase “andare a fondo” mi sembra bellissimo per concludere. Mille grazie.

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