“La pittura per me è, tuttora, un lavoro di ricerca, fatta di razionalità, fantasia e creatività. Questa è una scelta precisa che ho assunto con me stessa, consapevole che essa seguiterà a dare alla mia esistenza un giusto apporto qualitativo”. Lucia Di Luciano
È stato un vero colpo di fulmine quello che ho provato per la pittura di Lucia Di Luciano. Oggi, dopo 15 anni dal nostro primo incontro e in seguito a una lunga amicizia e collaborazione, l’entusiasmo iniziale si è concretizzato nella mostra “Lucia Di Luciano. Works from the 60s to 2024”, che presenta insieme a una selezione di lavori storici dell’artista più conosciuti dal pubblico internazionale, un importante corpus di nuove opere di piccole e medie dimensioni, presentate per la prima volta negli spazi della sua galleria di riferimento, la 10 A.M. ART di Milano. I dipinti recenti, tutti realizzati dopo il suo invito alla Biennale d’Arte di Venezia, rappresentano al meglio la fase più poetica, colorata e libera di quasi settant’anni di ricerca pittorica.
Ho scoperto il lavoro di Lucia quindici anni fa a Roma, nel salotto di casa di suo figlio Oscar, un caro amico. Le opere storiche, realizzate negli anni Sessanta, adornavano le pareti della stanza. Erano dipinti quadrati, rigorosamente geometrici e ossessivamente bianchi e neri, che provocavano una strana vertigine se osservati da vicino. A terra, una sorpresa inattesa: lungo il corridoio dell’ingresso, poggiata al pavimento e in verticale, una sequenza di tele rettangolari. Alte e strette, rappresentavano uno spettro cromatico che gradava dal bianco al giallo, attraversando le diverse sfumature dell’iride fino al nero. Questa, come ho successivamente scoperto, era solo una piccola parte dell’installazione monumentale intitolata Gradienti, composta da 55 pannelli che Lucia aveva realizzato nel 2001 per esplorare la percezione visiva e la rappresentazione cromatica, con particolare attenzione alla sfumatura. Nella sala da pranzo, invece, un grande dipinto sembrava la topografia di una città immaginaria, con linee intricate e forme geometriche colorate, ghirigori e tratteggi. Questa serie di opere, chiamata Capricci, era costituita da grandi tele orizzontali che si manifestavano come paesaggi della mente e dei segni, dove ogni porzione di quadro era abitata da porzioni di colori primari, alfabeti incomprensibili e linee ingarbugliate talmente fitte da confondere i confini tra le miriadi di immagini che popolavano il quadro.
Fin dal nostro primo incontro con il suo lavoro più recente e meno noto, per non dire sconosciuto, mi era chiaro di trovarmi davanti alla ricerca di un’artista capace di far evolvere la sua pittura in risultati formali in continua trasformazione e, per questo motivo, sempre nuovi e sorprendenti. Approfondendo e studiando la sua pratica, una pratica quotidiana e ossessiva, ho capito che per Lucia ciò che conta è la dinamicità della superficie pittorica, delle sequenze ritmiche di segni e linee nello spazio del quadro, il contrasto tra fondo e segno impresso con colpi di pennello rapidi, o con il pennarello e la penna.
Insieme a una breve panoramica storica del suo lavoro, presentiamo per la prima volta al pubblico la sua recente serie di Minimal e Senza titolo, lavori mai esposti prima, prodotti negli ultimi tre anni nel suo studio di Roma. Le opere in mostra, tutte di medie e piccole dimensioni, sono il frutto di un lungo processo di evoluzione e rarefazione del lavoro di Lucia. Del periodo geometrico e programmato rimangono il formato quadrato e la matrice astratta delle forme. Dei Capricci, solo un gesto, un tratteggio fatto col pennello pieno di colore puro, a suggerire dei quadrati imprecisi sui fondi rosa, argento e gialli della masonite dipinta.
“Il colore, troppo a lungo tenuto fuori dal suo studio, bussa, alfine, timidamente alla porta. Lucia non fa entrare che pochi colori, e questi diventano degli ipotetici personaggi, che hanno lo scopo di diversificare ed amplificare visivamente il suo già ricco corredo di immagini/segno. Ma la gran parte del colore non può attendere oltre, e Lucia, con il “Libro dei Colori”‘ di Munsell, comincia a selezionare i colori, in senso metodologico. Anche quanto detto non è perfettamente vero, poiché il suo immaginifico conferisce alle sistematiche tinte la fresca aura della sua inventività ed immaginazione. Lei va a prendere i colori dove la luminosità li rende aerei e fluttuanti nel visivo (…)”. Giovanni Pizzo in Una pittura che si racconta a cura di Simonetta Lux e Domenico Scudero, Roma 2003.