L’ampia antologica, la prima in Italia, di Ludovica Carbotta, restituisce la complessità raffinata della sua ricerca. L’artista indaga da sempre lo spazio urbano come incubatore di esperienze sociali, in cui uomo e ambiente si equivalgono creando nessi e vibrazioni profonde e inaspettate. “Nella mia visione individualità e ambiente si plasmano reciprocamente, diventando quasi indistinguibili l’una dall’altro. Le città sono il riflesso della nostra collettività, ma al loro interno è ancora possibile individuare le impronte delle nostre singole identità”, afferma l’artista. Come un archeologo giunto dal futuro, Ludovica Carbotta conduce una serie di esplorazioni fisiche servendosi di metodi di misurazione empirici e strategie inedite che debordano nell’assurdo.
In una pratica che ricorda le regole della deriva situazionista, ovvero una modalità del tutto arbitraria e creativa di esperire e mappare lo spazio urbano, Carbotta si insinua nelle maglie metropolitane destrutturandone e ricostruendone lo sguardo. Guy Debord nel 1956 scriveva: “Il concetto di deriva è indissolubilmente legato al riconoscere effetti di natura psicogeografica ed all’affermazione di un comportamento ludico-costruttivo, ciò che da tutti i punti di vista lo oppone alle nozioni classiche di viaggio e di passeggiata. […] Ma la deriva, nella sua unità, comprende nello stesso tempo questo lasciarsi andare e la sua contraddizione necessaria: il dominio delle variazioni psicogeografiche attraverso la conoscenza ed il calcolo delle loro possibilità.”2
Il viaggio è andato a meraviglia (2010) apre il percorso espositivo nella sua duplice natura di video (esercizio uno) e di disegno su carta (esercizio due), racconto per immagini e misurazione delle stesse, 120 minuti di narrazione per 120 “fotogrammi” di grafite su carta che ritraggono il paesaggio da postazioni in movimento, a bordo di treni, autobus o automobili, rendendolo perciò sfuggente e liquido. Il corpo e la sua presenza o assenza diventa per l’artista unità di misura soggettiva e irrazionale, ma altrettanto indispensabile, come quando in Non definire la superficie (2011) l’artista tenta di attraversare la città senza proiettare la propria ombra, sottraendo il suo corpo dalla scena. Mappare lo spazio vuol dire anche prelevarne parti sotto forma di calchi come esterno, particolare (2011) che strappa in scala reale un frammento di una strada di Torino, o Cast Bloc (2012-2024) che si erge come un intralcio di gomma siliconica accartocciata sul varco di accesso alla grande sala delle Ciminiere.
Images of Others Have Become Parts of the Self (2024) è una scultura di dimensioni variabili che si espande in altezza, una struttura lignea in grado di sostenere il peso dell’artista che la genera a sua volta site specific rapportandosi al volume dello spazio stesso per raggiungere il punto più alto possibile. L’artista si concede, dunque, una progettazione estemporanea, proliferante e divergente, che adattandosi allo spazio, si modifica a ogni sua nuova rilocazione.
Un modello rigenerativo analogo viene applicato alla serie Paphos (2021-2024) che “cresce” e ingloba nuovi elementi dall’ambiente circostante, come una scultura “gravida”, in costante evoluzione.
Mentre Die Telamonen (2020–2024), si presenta come un “gruppo di famiglia in un interno”: tanti telamoni che si ripetono e corrispondono, simili tra loro sebbene dimensioni e materiali differenti li rendano elementi unici. Ognuno, come il componente di una vera famiglia, porta sulle sue spalle un peso fisico quanto simbolico, nel tentativo di liberarsi dalla materia che li imprigiona in maniera michelangiolesca.
La scultura/architettura di Ludovica Carbotta diventa nelle sale espositive laterali un paesaggio narrativo volutamente espandibile, ricco di racconti e suggestioni, connessioni apparentemente trasparenti che richiedono però allo spettatore una partecipazione e uno sforzo immaginativo tale da trascinarlo nei labirinti della memoria. Memoria che non è mai una costruzione scientificamente dimostrabile, bensì personale e astratta, reinterpretazione libera di ciò che è stato vissuto o osservato. Come nella serie The Original Is Unfaithful to the Translation (2015) in cui l’artista riproduce alcune delle stanze in cui ha soggiornato nella sua vita affidandosi esclusivamente al ricordo personale e successivamente alla voce e all’interpretazione di persone altre (una guida museale, un agente immobiliare, un amico), che trasfigurano il racconto attraverso una pratica da lei stessa chiamata fictional site-specificity. Oppure come in Plenum (2015) dove l’artista ci rende spettatori del futuro fruendo le rovine del nostro stesso passato – nello specifico gli scavi archeologici della Sinagoga di Ostia Antica – tradotti plasticamente in cemento come fossero reperti rinvenuti nell’anno 3168, accompagnati dalla registrazione di una voce e da un segnale acustico in Linear Timecode.
L’efficacia immersiva della sala buia permea metaforicamente e sigilla la mostra, con il lungometraggio Monowe (2024) realizzato grazie al sostegno della Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura nell’ambito di Italian Council (11a edizione, 2022), e qui proposto in anteprima, che prende spunto dalla ricerca omonima iniziata nel 2016.
Il film è ambientato all’interno di un tribunale durante un processo giudiziario a carico dell’unica abitante della città. Venendo a mancare il principio dialettico, la donna, presente in una simultanea apparenza temporale multipla (bambina, adolescente, adulta, anziana), nonché di genere (maschio), trasforma il monologo in una frammentazione prismatica delle personalità e delle voci narranti, da fare eco alla letteratura pirandelliana. La protagonista è costretta, dunque, (forse per fuggire la follia) a incarnare molteplici punti di vista come quello del giudice e, allo stesso tempo, dell’imputato. Lo sviluppo sintattico diacronico è accompagnato dalla costruzione delle immagini in cui l’architettura rigenerativa e rizomatica tipica della ricerca di Carbotta torna ora ad abitare lo schermo come un paesaggio mentale. La poetica dell’assurdo sembra ricondurre alle atmosfere labirintiche e introspettive de Il Processo Kafkiano, in cui lo stato di angosciosa e alienante ciclicità, privata di una reale soluzione, sospendono il giudizio dello stesso giudice/imputato e, di conseguenza, dello spettatore. Nel dichiarare una contraddizione in termini, la pellicola evidenzia il pericolo insito nel ritiro all’autoisolamento e all’individualismo che estinguono il concetto su cui la città si fonda, ovvero quello di comunità.
L’artista sembra dare vita a Zenobia, tra le città sottili edificate su altissime palafitte a sviluppo verticale raccontata da Marco Polo ne Le città invisibili di Calvino, oppure a Tecla, la città-cantiere, il cui progetto è la notte stellata e la cui incompiutezza diventa per gli abitanti il pretesto di una paradossale salvezza da una possibile distruzione. Ma queste città sono anche sogni, come dice Marco Polo: “tutto l’immaginabile può essere sognato ma anche il sogno più inatteso è un rebus che nasconde un desiderio, oppure il suo rovescio, una paura. Le città come i sogni sono costruite di desideri e di paure, anche se il filo del loro discorso è segreto, le loro regole assurde, le prospettive ingannevoli, e ogni cosa ne nasconde un’altra”.