Una delle prime impressioni, iniziando la visione di Life Chronicles of Dorothea Ïesj S.P.U. (2024) del collettivo ALMARE e prodotto da Radio Papesse, è stata molto simile a un mio vecchio ricordo d’infanzia. Si tratta di una sensazione legata all’attesa di un attimo in cui da ragazzino ero rimasto impigliato nelle pesanti tende che separavano la sala di un cinema porno dal suo corridoio illuminato. Ricordo di aver chiuso gli occhi e la bocca per lo schifo che mi faceva il tessuto e, allo stesso momento, d’aver sentito il rumore di tacchi di cuoio sovrapporti al riverbero di vocalizzi acuti come quelli di gallinacei destinati a essere sgozzati. In quello stesso spazio interstiziale in cui si faceva il buio e in cui ci si preparava alle immagini, si resta per l’ora e ventitré minuti di Life Chronicles of Dorothea Ïesj S.P.U. in questa condizione di potenza e attesa per un’immagine che non arriverà, i suoni e le voci definiscono uno spazio astorico per la narrazione di una società retro-futuristica in cui dei samizdat sonori vengono estratti da oggetti emersi dal sottosuolo o dalla materia. Il racconto riguarda la Societas Paleoacusticæ Universalis (S.P.U.), un’organizzazione utopico-universitaria sansimoniana di stampo protosocialista che mette appunto macchine audio-estrattive che finiranno per essere utili all’industria bellica. Nello specifico la macchina è uno scanner quantico chiamato E.C.H.O. (Equalised Control of Hierarchic Oscillations) che permette l’analisi delle microonde sonore incise sulle superfici che compongono il mondo in cui si è precipitati.
Strutturato come un diario di messaggi vocali della ricercatrice di archeoacustica Dorothea Ïesj, prende le mosse da una convinzione pseudoscientifica di fine XIX sec. che ipotizzava che voci e suoni del passato potessero essere rimasti incisi nella materia. Il racconto si sviluppa con il coinvolgimento di quest’ultima in delle aste del mercato nero, dove vende illecitamente scoperte audio-archeologiche. Durante la sua ricerca, Dorothea si imbatte in registrazioni di guerre rivelatrici di una mai esplicata condizione di conflitto. Il lavoro di ALMARE in realtà si aggancia proprio, a partire dal materialismo, alla presunta immaterialità del tempo presente. A quelle strategie narrative ed edonistiche del capitalismo di piattaforma che caratterizzano l’odierna tecnologia estrattiva. La soluzione, sembra stare in una ri-materializzazione della ricerca, una manipolazione media-archeologica di archivi fisici e di memoria destinate altrimenti all’oblio.
Cancellati per accumulo o perché sepolte a loro volta, sono invece le referenze, quelle ovvie a Chris Marker, oppure a Dissipatio H. G. (1977) di Guido Morselli, ma anche quelle politiche e proto-materialistiche. Come il dialogo trans-storico con la Philosophia sensibus demonstrata di Tommaso Campanella in cui, in tempi di sovrastrutture teleologiche, si affermava l’atto rivoluzionario di un pensiero dimostrabile solo attraverso i sensi. In cui la rivelazione del mondo in forme e suoni intensi, passava da un’osservazione e da un ascolto quasi gastrico. Insomma, il lavoro di ALMARE funziona come un dispositivo di materializzazione anti-amnestica, un racconto in cui il pensiero diventa minerario. D’altronde i ricordi hanno la tendenza ad essere estremamente oggettuali “come polvere” dice la voce narrante di Life Chronicles of Dorothea Ïesj S.P.U., come lo schifo, dico io, quello stesso schifo di quella tenda nel black-box per pargoli in cui mi immersi anni e anni fa.