C’è una fotografia di Carla Accardi che mi fa tenerezza ogni volta che la guardo; la ritrae nel suo studio pensierosa, intenta a scrutare una serie di segni che si era appuntata su dei fogli di carta; di fronte il cavalletto con appoggiata una tela da poco iniziata, l’artista sembra totalmente immersa in quel groviglio di segni per terra. Dico tenerezza perché quello fu un anno decisivo per la carriera di Accardi nel quale spese molto tempo da sola, a pensare e ad assemblare segni su taccuini e blocchi note, ricucendo i lembi di un ferita che da personale diventava lentamente politica, universale.
La fotografia è del 1953, anno in cui Accardi realizza la serie intitolata Negativi. In questa fase, nella pittura dell’artista, scompaiono i colori e prende vita una dimensione del ricordo che si deposita orizzontale sulla tela, sotto forma di segni bianchi, lettere e riflessi. Il nero, che diviene lo sfondo di questi frammenti, più che da vuoto funge da membrana nella quale depositare i ricordi. Possiamo leggere in quegli astratti minimali, il luccichio del mare di Trapani, città natale di Accardi e il riflesso del fogliame della Villa Comunale, dove da ragazza spendeva le giornate a disegnare. Questa serie segna un punto decisivo per comprendere come nel lavoro dell’artista si inizia a sviluppare un complesso alfabeto, in cui le maglie del linguaggio, concatenandosi, creano molteplici universi di significato.
Il linguaggio, da qui in poi, diviene intimo e personale, distaccandosi definitivamente dal primo approccio stilistico legato alle influenze del gruppo Forma 1. Accardi inizia ad affrontare quindi le fragilità della forma che, dopo essersi composta e manifestata, si infrange brutalmente, creando una dinamicità sensibile in grado di rappresentare quello che lei ha sempre definito, attraverso la sua pittura e l’interesse verso le teorie scientifiche, un incontro con il mondo.
Ho voluto fare questa premessa poiché “Opera Aperta”, il titolo della mostra in corso nella sede di Londra di MASSIMODECARLO, che prende spunto dall’omonimo dipinto del 2011, è strettamente connesso allo sviluppo che questo primo periodo di ricerca ha portato nella pratica di Accardi. I lavori in mostra vanno infatti dagli anni Settanta ai Duemila, periodo nel quale Accardi si è concentrata principalmente sulla sperimentazione di materiali e supporti pittorici. Le trasparenze, i colori e l’utilizzo di plastiche industriali diventano strumenti sensibili in grado di “aprire” l’oggetto pittorico alla sua esistenza nel mondo.
Non ho mai riflettuto molto sul concetto di spettatorialità nella fruizione pittorica. Quello che però credo sia davvero importante sottolineare della selezione di opere in mostra da MASSIMODECARLO è come la pittura di Carla Accardi agisca in questo senso sulla dimensione spettatoriale, attraverso un sottile gioco di strutture, supporti, colori e porosità. “Opera Aperta” ci chiede di prendere un respiro profondo prima di entrare in mostra e provare, una volta all’interno, a trasformarci in amplificatori, in grado di riflettere l’estrema complessità dell’esperienza pittorica.
Non è facile guardare il lavoro di artiste come Accardi senza interrogarsi su quali sono le strutture invisibili che compongono la realtà che ci circonda. La sua pittura è in questo senso un oggetto quadrimensionale, uno strumento in grado di mostrare l’intreccio dello spazio nella sua condizione più dilatata e astratta, quella del tempo.
Allora, ogni perplessità di fronte all’astrattismo si fa concreta e immediatamente riusciamo ad accogliere questa lingua ignota, nella quale i ricordi, i corpi e il mondo si mescolano in un’unica figurazione tangibile.