Ha chiuso lo scorso 26 maggio 2024 la seconda edizione di Cremona Contemporanea – Cremona Art Week, rassegna realizzata sotto la direzione artistica di Rossella Farinotti, con il coordinamento di Conceptual Fine Art Agency e il patrocinio dell’Assessorato alla Cultura del Comune di Cremona.
Cremona Art Week rappresenta un ecosistema complesso, vibrante per numero di persone, enti e realtà sostanzialmente coinvolte nella sua creazione. Volendo avanzare qualche dato preliminare, si tratta, anzitutto, di un’esposizione che si diffonde in maniera capillare sul territorio del comune lombardo, disegnando un itinerario cartografico insieme cinestesico, ossia sollecitante il passo e l’orientamento, e storico. Ventisette, risultano infatti i siti assurti a luogo d’esposizione per il lavoro di diciannove artiste e artisti, in una selezione intergenerazionale, internazionale e transculturale per più di una ragione. La programmazione che si dispiega tra le maglie di tale diagramma civico comprende installazioni site-specific, esposizioni, performance, progetti speciali, talk e proiezioni ritmanti la durata complessiva, stringata, della rassegna: poco più di una settimana, dal 18 al 26 maggio 2024.
Questi i presupposti dell’impresa, tendenzialmente comuni a iniziative basate su format affini. Rispetto alle esperienze progenitrici, sovente dissacranti e portatrici di istanze di carattere linguistico prima ancora che pubblico o identitario – mi riferisco alle mitologiche iniziative sorte nell’Italia degli anni Sessanta e originate dalla volontà di immettere e finanche legittimare le coeve ricerche artistiche entro circuiti decentrati –, Cremona Art Week afferma limpidamente la propria finalità. La rassegna non si conforma a un tema preposto, in una tendenza oggi maggioritaria nelle pratiche curatoriali, tematizzando, invece, la propria vocazione: quella di attivare il tessuto socioculturale della città. Tale propensione mi pare debba sottendere una questione indiretta, benché decisiva, relativa al potenziale critico che il connubio tra ambiente urbano decentrato e sperimentazione artistica può innescare nel presente, un tempo conflittuale, gerarchizzante su più fronti. Numerose, in questo senso, appaiono le sollecitazioni che la manifestazione accende. Per enuclearne alcune: in quale misura tale dimensione segnatamente pubblica tange l’autorialità della/dell’artista, ammesso che ciò accada? L’enunciazione di ricerche più marcatamente formali-linguistiche risulta conciliabile con una cornice comunitaria? In altre parole: l’agire in ambienti geograficamente e storicamente situati può sostenere il risalire, necessario, a un sostrato plurale, allargato e perciò politico, della forma e delle forme? Come coniugare comunità e ambizioni internazionali?
Assecondando tali possibili tracce, uno degli aspetti che rende Cremona Contemporanea un modello progettuale virtuoso pertiene alla natura strutturalmente situata della manifestazione, frutto di un’interazione stratificata tra l’anzidetto tessuto socioculturale della città, una rete coesa formata da individui, enti, luoghi, istituzioni e le artiste e gli artisti invitati. Merito di questa sinergia spetta al lavoro compiuto da Rossella Farinotti e dalle numerosissime figure impegnate nella configurazione della manifestazione, in un operato in grado di valorizzare il patrimonio culturale cremonese, sorprendente e in molti casi ignoto alla cittadinanza stessa.
Le modalità di attivazione, ora specificamente storico-artistiche, dei suddetti siti, risultano articolate. Opere e luoghi sembrano interagire generando fenomeni di contaminazione e mimetismo, di consonanza così come di capovolgimento e continuità, di sottrazione e persino inghiottimento. Proprio in virtù di tale eterogeneità, preziosa da un punto di vista critico, l’istituzione di ventisette episodi espositivi rischia di complicare la fruizione di una manifestazione in sé particolarmente densa, moltiplicandone i fuochi – e mitigando, eventualmente, la forza del loro effondersi –, cedendo talvolta a una restituzione maggiormente calligrafica del dialogo opera-città o meno pregnante sul piano linguistico. Una dialettica, quella appunto tra opera e città in senso lato, che sembra costituire il cuore teorico della presente edizione, ancor più di quanto avvenuto nella precedente.
Tentando di tracciarne uno spaccato inevitabilmente parziale: sebbene la tematizzazione non risulti uno dei criteri ordinatori dell’iniziativa, la contingenza del tempo presente irrompe in essa con forza. Ne recano testimonianza le opere site-specific di Jeremy Deller ed Emma Talbot, attestanti la sintesi di stilemi riconoscibilmente autoriali, sito espositivo, contemporaneità. A Fondazione Casa Stradivari, il filmato Ramallah Old Town 30th April 2024 (2024) ideato da Deller e girato da Abdallah Motan, documenta la straordinaria attività del liutaio Shehadeh Shalalda nella West Bank, determinando un cortocircuito toccante in cui temporalità, confini e culture si intrecciano nel solco di un sapere in movimento: quello della manifattura del violino. L’installazione intermediale The Tragedies/ Le Tragedie (2024), immaginata da Talbot per Teatro Ponchielli, inscena una cartografia tridimensionale in cui la componente disegnativa si fa parola e scultura, dando corpo a una narrazione imperniata sui grandi temi trasculturali di nascita, morte, emancipazione femminile, comunità. In direzione di una riconfigurazione dello statuto del monumento si pone l’intervento fotografico Hercules (2024) di Patrick Tuttofuoco, controcanto antieroico dell’omonimo gruppo scultoreo eclissato dal 1962 sul fondo della retrostante Loggia dei Militi, duecentesca. Monumentale, anzi solenne, appare la meditazione sul Novecento dispiegata dal lungometraggio Requiem (2019) di Jonas Mekas, oggetto di un’intensa proiezione, la prima in Europa, proposta da San Carlo Cremona (visitabile sino al 14 luglio 2024). Ricerche originate dal confronto con l’attualità figurano anche nella produzione di artiste e artisti emergenti, la cui presenza costituisce una scelta curatoriale da sottolineare. È il caso delle installazioni ambientali di Lucia Cristiani a Palazzo del Comune (Dopo tanto perdermi, 2024; Dense, 2024) un paesaggio di tracce interspecifiche che si misura con l’edificio di rappresentanza in maniera camaleontica piuttosto che impositiva, in una postura echeggiata dagli interventi dispersi nella medesima sede da Ornaghi e Prestinari.
Mi preme infine proporre un’ultima considerazione. Benché la rassegna includa molteplici ricerche pittoriche e oggettuali (tra concettuale e performativo con Roberto Fassone, consumo e archivio con Victoria Colmegna), ricerche, peraltro, pienamente integrate nella spazialità di cui si è detto, è nell’alveo della scultura che sembrano precisarsi gli estremi di un discorso più marcatamente inerente al medium. Da tale novero di possibilità derivano traiettorie plurime: riferibili alla scultura in quanto linguaggio millenario con gli orecchi marmorei recisi da Nevine Mahmoud e ostensi in una nicchia del Museo archeologico di San Lorenzo (decollates (ears), 2024); metonimico con le ceramiche modellate da Zoe Williams e allocate, irriverenti, nella sede di Confcommercio di Palazzo Vidoni.
Vi sono, infine, lavori che intendono la scultura nel suo esistere, essenziale, in quanto forma che in sé stessa significa e anela a significare. Si pensi a A pear with two bites (2019) di Judith Hopf, installata all’esterno dell’Archeologico, che reifica la natura equivoca, storicamente associata alla scultura, del rapporto immagine-presenza. Assecondando un frangente ancora differente, la personale Opere Libere di Federico Cantale da Triangolo (visitabile sino al 15 giugno) riunisce in termini antologici le traiettorie della produzione di Cantale, un vocabolario di lemmi in cui la forma si esplica contestualmente nella materia, nel materiale e, ancor più sottilmente, nel colore. La sua emersione costituisce uno sforzo lieve, uno soffio pieno d’aria che scompagina i valori di referenza (Tra sé e sé, 2024), producendo un differimento tra oggetto e gesto: un piccolo sbuffo. Con Francesco Gennari questo respiro diviene attesa, un “protendersi verso” che consente a una scultura discreta, orizzontale e straordinariamente affine all’ordinarietà del reale, di inghiottire il nostro tempo e la promenade di un palazzo signorile del Settecento (non sarà mai più come la prima volta, 2018, Palazzo Stanga Trecco), nonché un arioso, sostanziale, spazio vuoto.
Il legame tra forme, identità, decentramenti postula una condizione divenuta oggi del tutto inderogabile. Il peso che può avere una ricerca anzitutto formale e linguistica che si ponga come comunitaria, ossia partecipe nel modo più profondo del tempo presente, rappresenta, forse, una delle prospettive su rassegne quali Cremona Art Week dovranno confrontarsi.