C’è una forma di abitabilità che pervade gli spazi del Padiglione Italia alla 60a Esposizione Internazionale d’Arte – La Biennale di Venezia. Alimentata da un corpo sonoro che è a sua volta modulato dalle continue relazioni che si instaurano con il corpo fisico di chi lo attraversa, questa abitabilità pone l’accento sulla dinamica dell’ascolto, e di come in esso il suono e il senso si mescolino, risuonando l’uno nell’altro. Questa sensibilità acustica trova fertile e attuale riscontro, tra gli altri, nel pensiero di Jean-Luc Nancy, la cui analisi dell’“intendere in senso acustico” – ovvero dell’ascoltare – porta in primo piano l’aspetto corporeo e il suo rapporto con l’altro: “Il suono rende l’ascolto intrinsecamente relazionale e mai assimilabile a una forma chiusa e ferma in se stessa, ma poi e soprattutto l’ascolto genera una singolare modalità di apertura del e nel corpo di chi ascolta, giacché il suono, risuonando attorno a questi, contemporaneamente risuona in lui, entra e dilata il suo corpo, creando una sorta di rovesciamento incrociato tra interno ed esterno”1. Come in uno scambio reciproco, quel corpo sonoro diventa così anche corpo relazionale.
Il senso di abitabilità e permeabilità tra gli spazi che ho provato nell’attraversare le Tese e il Giardino delle Vergini che ospitano “Due qui / To Hear”2 parte dunque anche da qui: da un’interiorità che è un risuonare delle cose tra di loro, tra un dentro e un fuori, dove il sonoro, a differenza del visivo che permane fin dentro il proprio dissolvimento, “trascina via la forma, la allarga, le dà un’ampiezza, uno spessore o una ondulazione”3, nel suo accadere in uno spazio-tempo. Ma parte anche da una precisa scelta artistica e curatoriale che ha lasciato gli spazi espositivi aperti a una dimensione di pensiero – ma prima ancora di predisposizione all’ascolto – “a mente sgombra”, secondo Giorgio Agamben, senza ostacoli e muri che ne impediscono l’accesso e la libera circolazione di idee. “L’azzeramento, la rarefazione del linguaggio sono stati sentimenti ispiratori. Mi interessava creare uno spazio di attraversamento, di pensiero in cui noi esseri umani abbiamo una possibilità. Una possibilità di ascolto”,4 afferma Luca Cerizza, curatore del Padiglione Italia, che quest’anno ospita come unico artista Massimo Bartolini.
Frutto di un’intensa collaborazione con artisti/e, musicisti/e, nonché tecnici e maestranze specializzate, “Due qui / To Hear” è un ambiente “polifonico” tripartito e con due possibili accessi. Sfruttando le caratteristiche architettoniche degli spazi, ed evitando volutamente di sfidarne la vastità con un display museale “educato”, il progetto non prevede la costruzione di muri, ma organizza e cadenza il proprio ritmo seguendo la dimensione performativa dell’elemento sonoro che diventa così architettonico e trova continui riverberi nell’alternanza tra pieni e vuoti, silenzi e ingombri acustici. L’apparente circolarità del percorso lascia quindi agile manovra per un attraversamento libero e non necessariamente lineare, dove risulta naturale porsi in relazione con le opere che si fanno così volume, tempo, tessitura vibrante. Si attraversa un suono, uno spazio, un’idea, un pensiero. Lo si attraversa da soli, ma mai veramente soli, perché il suono apre sempre al suo corpo, alla spaziatura stessa della sua risonanza e dilatazione.
L’installazione Due qui (2024), la più grande di questa serie mai concepita da Bartolini, ne è la prova tangibile5. Costituito da una struttura percorribile composta da tubi innocenti usati nei cantieri e modificati in modo da suonare come un grande organo (e dunque non più ascrivibili alla loro funzione primaria), questo “edificio” musicale presenta delle fughe prospettiche che seguono la pianta geometrica di un immaginario giardino barocco all’italiana, sistema che qui serve per veicolare un suono che non solo viene ascoltato a tutto tondo, ma anche visualizzato. “Io sento quello che non vedo quando ascolto. L’ascolto gira intorno a me a 360 gradi, e quindi posso cogliere qualcosa al di fuori della dialettica frontale della visione.”6 E ancora: “L’organo di solito è alto, lontano: io l’ho voluto avvicinare fisicamente per far percepire non solo la sua nota ma anche il suo respiro, il suo fiato, e ho voluto anche donargli una struttura familiare, come quella di uno scaffale.”7 Il suono infatti, ricorda Nancy, non ha facce nascoste, è completamente davanti dietro e fuori dentro, sottosopra.
Al centro di questo ambiente, ad assolvere la funzione che nei giardini è normalmente occupata da una fontana, si trova Conveyance (2024), una scultura dalla circolarità minimalista e animata da un’onda conica che sale e scende di continuo, inducendo uno stato meditativo. “Conveyance è veramente il cuore pulsante, il punto di equilibrio, di pacificazione forse, di questo grande spazio labirintico. Se l’onda è del tutto silente, tutto intorno a lei è suono.”8 Fungendo da seduta e spazio esperienziale dove poter sostare in solitaria o ritrovarsi casualmente con altre persone, questo snodo di incontro è la posizione da cui si può meglio ascoltare, in forma stereofonica, la composizione concepita dalle musiciste Caterina Barbieri e Kali Malone. Antifona unicamente scritta in La bemolle, in questa nuova commissione intitolata Mute vette (A Reflection That Shines From One Mind Upon Another) due linee melodiche si incrociano fino quasi a completarsi a vicenda. Essendo in loop, in modo che la meccanica idealmente sostituisca l’esecuzione dell’uomo nell’organo tradizionale, questa musica è incisa su due rulli a motore installati a terra in punti differenti del sistema tubulare. Intese come “sculture che fanno rumore”, questi oggetti suonano insieme e declinano così l’ascolto come esperienza variabile in base al movimento dello spettatore, ponendo l’attenzione anche sulla macchina e i suoi meccanismi di funzionamento, elementi da sempre centrali nel lavoro di Bartolini.
La verticalità e la pienezza ortogonale di “Due qui” trova la sua controparte forse più spirituale nella Tesa piccola con l’opera Bodhisattva pensieroso su La bemolle (2024), scultura sonora che segna lo spazio come fosse una linea di demarcazione, o una colonna sdraiata a terra. Unico elemento in un ambiente connotato da vaste pareti verdi e viola,9 questo oggetto è anch’esso una canna d’organo, la cui bocca si rivela solo alla sua estremità dove un ventilatore muove l’aria all’interno della canna stessa, creando un suono basso in La bemolle, molto denso e circolare, della durata di cinquanta minuti e intervallato da una pausa. Percorrendo l’asse di questa scultura, ciò che si accentua mano a mano è la percezione di un tempo sospeso e di attesa, ma anche di spinta verso un orizzonte sonoro quasi ignoto, a conferma di come “ascoltare significa tendere l’orecchio, e implica un’intensificazione e un impegno, una curiosità o un’inquietudine.”10 Una piccola statua in bronzo di un Pensive Bodhisattva – unica nota iconografica presente in tutto il Padiglione – è appoggiata sul bordo opposto dell’organo. Avendo già raggiunto l’illuminazione ed essendo quindi concentrata solo verso la liberazione degli altri, questa figura ci accoglie immobile nella sua inattività, con una gamba appoggiata sulla coscia mentre si tocca il mento con le dita della mano destra. La sua presenza isola in un breve istante un punto di sospensione nella vastità dello spazio espositivo.
La dimensione narrativa e partecipativa del suono prosegue anche all’esterno del Padiglione, nel Giardino delle Vergini, a testimonianza di come il rapporto con l’elemento organico, la terra e il paesaggio siano da sempre dei capisaldi nella pratica dell’artista. Se con la nuova composizione per tre voci, campane e vibrafono (A veces ya no puedo moverme [2024])11 ideata dal musicista Gavin Bryars insieme al figlio Yuri si narra di un essere umano che si percepisce come un albero o una forma vegetale connessa al mondo, “individuando una modalità di ‘con-essere’, dell’essere insieme, intrecciati in infinite onde relazionali, di tutte le cose, di tutti gli esseri”12 – esattamente come accade nell’ascolto –, con l’azione/non-azione quasi invisibile di Audience for a Tree (2024)13 si allude invece a una relazione osmotica con l’elemento naturale. In questo gesto un cerchio di persone “piantate” intorno a un albero del giardino diventa al contempo architettura provvisoria e spettatori, lasciando traccia di uno spazio temporaneo e residuale di contemplazione che modifica ogni volta la configurazione del paesaggio.
All’uscita (o all’entrata) non possono così che risuonare alla mente le parole di Pauline Oliveros “Ascoltare il cambiamento; ascoltare per ottenere il cambiamento; ascoltare per cercare il cambiamento”14, intrecciate con le tonalità di La bemolle che si sono relazionate con il corpo di chi ha le ha visitate e abitate. Il “funzionamento” del Padiglione fa allora emergere ulteriormente nel suo insieme la “meccanica” di un’opera che nei fenomeni episodici di ascolto agisce sullo spettatore come un motore di possibile rinnovamento all’ascolto, attualizzandolo e aprendolo alla sua cifra forse più preziosa.