Un susseguirsi di voci che cantano varie versioni di Bella Ciao accoglie i visitatori al PAC di Milano per la personale di Liliana Moro, “ANDANTE CON MOTO”, curata da Letizia Ragaglia e Diego Sileo, e realizzata in collaborazione con il Kunstmuseum Liechtenstein di Vaduz. Durante l’inaugurazione, quelle stesse voci erano quasi inudibili a causa dell’affluenza straordinaria di persone per una mostra tanto attesa e finalmente dedicata a un’artista milanese d’eccezione, figura tra le più rilevanti della sua generazione.
L’esposizione offre l’opportunità di ripercorrere l’attività di Moro dagli esordi negli anni Ottanta fino alla sua opera più recente, Andante con moto (2023), che dà il titolo alla mostra stessa. A emergere è la straordinaria coerenza degli interessi e della ricerca dell’artista, la cui evoluzione e maturazione nel corso degli anni possono essere osservate da vicino grazie a una selezione di opere accuratamente scelte e ben allestite, che riescono a dialogare armoniosamente tra loro. Senza fine (2010), tromba acustica da cui fuoriescono i citati canti di Bella Ciao, pervade l’area d’accoglienza prima dello spazio espositivo, rappresentando una duplice dichiarazione: di impegno politico e di centralità del suono. L’intera produzione di Moro, così come questa mostra, si può infatti leggere secondo tali linee guida. E’ un’arte politica, nel senso che è sempre rivolta all’esterno, all’altro e alla comunità. Parallelamente, il suono, che ha un ruolo primario nella ricerca dell’artista, diviene per l’occasione il perno attorno al quale è costruita l’intera esposizione.
Nella prima sala campeggia la fotografia di un microfono realizzata nel 1989, ingrandita e presentata come un poster murale. Il microfono evoca in sé la possibilità di amplificare la voce e trasmettere messaggi, un simbolo di comunicazione e condivisione dal duplice valore: da un lato, dà voce a chi guarda, dall’altro, invita a mettersi in ascolto. Si desidererebbe così poter essere i protagonisti di Passeggiata (1988), indossando quei pattini di ferro legati e inutilizzabili, esposti per la prima volta nel 1988 durante la mostra “Politica del per o riguardate il cittadino” a Novi Ligure (che già nel titolo manifestava il valore politico che alcuni artisti, tra cui Moro stessa, attribuiscono all’azione civile). Spostandosi poi nell’opera Moi (2012) – installazione circolare composta da 12 casse poste su piedistalli – si è invece invitati ad ascoltare la voce dell’artista che racconta la performance Studio per un probabile equilibrio in movimento da lei svolta nel 1997 assieme a Giovanna Luè. La stretta relazione tra suono e performance qui non sembra casuale: il suono, infatti, modella lo spazio e induce un preciso movimento al suo interno, costringendo i visitatori a entrare nel cerchio di casse per poter ascoltare.
Partecipazione e suono si fondono ancora nell’opera della sala successiva, “ ” (2001): non si tratta di un senza titolo – che nei lavori di Moro assume sempre un valore indicativo e a tratti immaginifico – è piuttosto una scelta precisa in cui le virgolette visualizzano il vuoto dello spazio. L’opera consiste in una sala il cui pavimento è ricoperto da pezzi di vetro su cui il visitatore è invitato a camminare, scoprendo un diverso modo di muoversi in un moto che distrugge ulteriormente il materiale, un gioco di piacere e rischio tra la delicatezza del vetro e la sua natura tagliente.
Proprio questa compresenza di opposti si ritrova in molte opere, come nella struggente Avvinghiatissimi (1992), dove delle cinghie rosse stringono due morbidi materassi di gommapiuma. L’aspetto acustico è presente anche qui: un tango argentino di Astor Piazzolla, emanato dalle casse ai lati del materasso, abbraccia ulteriormente l’opera propagandola nello spazio. La mostra si conclude al piano superiore con Andante con moto, un ultimo saluto dichiarato a Samuel Beckett, drammaturgo e scrittore che, con le sue scene ambientate in spazi spogli, o addirittura vuoti, e il linguaggio ridotto all’essenziale, è stato un punto di riferimento per Moro fin dagli esordi. Al centro di un allestimento minimalista, una cassa diffonde la voce della stessa artista mentre legge L’ultimo nastro di Krapp, arricchito con frasi personali e il suono di un treno. Come il protagonista dell’opera di Beckett, che affronta il suo passato e i suoi fallimenti in una sorta di racconto diaristico, anche Moro, con questa mostra, sembra ripercorrere la propria storia, iniziando a tirarne le fila. È sicuramente un punto di arrivo, forse di svolta, prima di nuovi orizzonti.