Con l’ebrezza dell’abreazione, il culmine dell’abreazione che conduce alla consapevolezza, l’effetto drammatico è al suo colmo quando diventa vita stessa, qualcosa di simile a quando si compie la catastrofe nel dramma classico.
L’unica differenza è che la catastrofe del Teatro O. M. è sciolta dalla tragica inevitabilità del dramma antico da una profonda catarsi, dalla neutralizzazione della realizzazione estetica e dalle repressioni rese visibili. La teoria dell’abreazione orgiastica con animali macellati (carne cruda) è probabilmente solo un’indicazione delle pressioni tendenti a un’esperienza più eccezionale, che però non appare nella rappresentazione, e cioè l’uccisione, l’esperienza di uccidere. II bisogno, l’inclinazione collettiva al massacro, potrebbe essere una nostra particolarità filogenetica, che non è assolutamente stata sopraffatta né soppressa, bensì fortemente repressa dalla nostra coscienza ed ormai difficilmente accessibile. All’apice del dramma, con l’apparizione della “catastrofe” sotto forma di un’abreazione orgiastica estrema, il desiderio di uccidere potrebbe diventare cosciente.
L’eccitazione provocata dalla crudeltà ammette l’atto estremo proibito e culmina con l’uccisione. Le opere drammatiche della letteratura mondiale trattano sempre della morte e dell’atto di uccidere. Rappresentano il nostro desiderio inconscio di uccidere, il desiderio di fare l’esperienza di uccidere. Si può facilmente spiegare l’importanza di questa esperienza, nel nostro genere di rappresentazione. Uccidere è stato ed è tutt’ora, oltre ogni giudizio morale, un argomento esistenziale importante. Per l’uomo primitivo, uccidere era una necessaria affermazione e realizzazione giornaliera della vita, era una questione di sopravvivenza e di conquista. Uccidere (la sete dell’esperienza di uccidere) si è dimostrato una delle forme più autentiche di affermazione esistenziale e di intensa esperienza dell’io, che ci permette di vedere, oltre la nostra realtà umana, nella nostra natura animale. Dovremmo almeno essere capaci di vedere, nel nostro comportamento a questo riguardo, la rassomiglianza all’animale. L’animale, strumento di morte, cacciatore, predatore, aspetta la preda, il suo cibo. Tutti i suoi sensi, le sue facoltà, sono contenuti tesi, fino all’uccisione. Un improvviso inebriante appagamento subentra quando la preda è fatta a pezzi, i denti affondano taglienti nella carne palpitante di luce e di sangue vivo, al gusto della carne cruda e del sangue caldo. Per l’uomo primitivo, l’uccisione deve aver avuto lo stesso gusto. Questa uccisione animale, esistenziale, si avvicina all’atto sessuale, succede qualcosa che agisce su tutto l’organismo fisico e psichico in modo decisivo.
La sete di esistenza si manifesta nell’atto di uccidere del predatore. È rimasto in noi qualcosa della voluttà di questa esperienza. Con il mito cristiano, sogniamo di uccidere un dio ma, nello stesso tempo, ci sentiamo in colpa per questo sogno. Uccidere significa penetrare, aprirsi un varco con la violenza, nel mondo che ci circonda, stabilire con esso un rapporto profondo. Qualcosa nel mondo circostante deve essere soppresso, annientato, al momento in cui entra in atto la nostra stessa esistenza, la nostra vita. II mondo circostante soffoca l’individuo, tenta di distruggerlo, oppure l’individuo si addentra nel mondo per distruggere. Ciò che intralcia va distrutto o uccide l’assalitore, e la sete proibita di vittoria penetra la carne dell’essere vinto. L’atto di uccidere sfida il corpo e l’anima e li spinge ai limiti dell’esperienza profonda. Uccidere è esistenza profonda, è ebbrezza della realizzazione nell’aggressività dei sensi, è il misticismo dell’essere con sintomi negativi, capovolti. II nostro organismo tende all’atto di uccidere fin giù negli organi che godono del gusto della carne. II fatto che noi uccidiamo per mangiare è messo da parte, cancellato. La società prende la responsabilità di uccidere da ciascuno di noi. Paga macellai che uccidono per noi, fuori dalla nostra vista.
L’onestà della nostra esistenza richiede che noi prendiamo coscienza del macello degli animali uccisi per noi. È necessario che noi viviamo fino in fondo, consapevolmente, la realtà delle necessità dei nostri organi, determinate dalla nostra esistenza, per giungere ad un riconoscimento della nostra tragica realtà, che deve uccidere per fare l’esperienza dell’elemento essenziale dell’io. Manca appunto, nella nostra civilizzazione, quell’esperienza dell’io che l’esperienza di uccidere porta con sé. Questo impulso non è più accessibile alla nostra coscienza civilizzata. II criminale, che manifesta e risolve i nostri conflitti insoluti, deve essere punito. La tenue luce che si affievolisce nel tiepido grembo della società, la poca comprensione dell’esistenza, soffoca ogni intensità. La società ci toglie ogni possibilità di affermare la nostra esistenza e la affronta per noi. Vengono create leggi e regolamenti che sprecano il nostro potenziale naturale e distolgono dall’essere, dalla profonda comprensione dell’esistenza. L’intensità, che non si è fatta esperienza (soffocata), diventa il nostro desiderio inconscio di uccidere.
Lo scopo del metodo analitico del Teatro O. M. è di portarci vicino all’esperienza di uccidere e rendercene consapevoli. L’ebbrezza che risulta dall’abreazione orgiastica, la gioia provata nella crudeltà, sono molto vicine all’impulso di uccidere e lo rendono cosciente.
La catarsi, che così provocata sveglia la coscienza, crea la possibilità di sublimare l’esperienza di uccidere. L’argomento suddetto non intende glorificare l’atto di uccidere né indurre ad uccidere. Al contrario, il desiderio non esaudibile di uccidere deve liberarsi dalla sua repressione e trovare soddisfazione in un’esperienza che supera in intensità l’esperienza di uccidere e porta un sentimento di durevole armonia mistica con il tutto. Si vorrebbe che l’intero corso della vita fosse concentrato in un’esperienza mistica. L’intensità inebriante dell’esistenza deve essere estesa ad ogni settore di esistenza nella vita di tutti i giorni.