Cristiano Seganfreddo: La tua transizione dalla cornice critica di Flash Art all’istituzione di una tua piattaforma curatoriale rappresenta un significativo cambio di prospettiva. Come si è evoluta la tua comprensione della tensione tra discorso critico e dinamiche di mercato attraverso questa trasformazione?
Tan Cheng: La comprensione di questa tensione può maturare nel tempo, passando dalla consapevolezza teorica alla gestione pratica, dove le scelte devono prendere in considerazione sia la sostenibilità economica delle iniziative sia il loro impatto culturale. Flash Art potrebbe aver acuito in me una certa propensione verso quelle pratiche artistiche considerate più radicali e distanti dal mercato. Mentre ora, alla guida di una galleria, questa propensione ad un discorso critico si è scontrata con la realtà e mi ha costretto ad essere consapevole di come presentare tali pratiche in contesti che siano sostenibili. L’equilibrio tra questi due agenti è la sfida che ogni artista e ogni mostra mi pone.
CS: La nozione di “galleria di ricerca” suggerisce un modello istituzionale che trascende i convenzionali imperativi commerciali. Potresti spiegare come la tua galleria media tra l’indagine intellettuale e la necessaria sostenibilità economica all’interno dell’ecosistema artistico contemporaneo?
TC: In realtà cerco di mediare il meno possibile per non condizionare le ricerche dei singoli artisti. A volte capita che alcune ricerche si inseriscano meglio all’interno del mercato, ma questo non mi ha mai portato a sottovalutare ciò che invece ha più difficoltà nell’ottenere risultati in questo senso. Anzi, devo dire che la mano del mercato all’interno della ricerca di un artista può spegnere l’indagine intellettuale che rimane per me l’unica cosa sui cui poter lavorare.
CS: Avendo abitato sia la sfera critica che quella commerciale dell’arte contemporanea, come percepisci il cambiamento nel rapporto tra la critica basata sulle pubblicazioni e la creazione di mostre come metodologie per far avanzare il discorso artistico?
TC: La critica scritta, attraverso riviste, cataloghi e articoli, ha avuto un ruolo centrale nel definire la ricezione delle opere e degli artisti, diventando spesso il principale veicolo di riflessione teorica e di analisi. Anche le gallerie allo stesso modo.Tuttavia, nel corso degli anni, abbiamo visto un’inversione di tendenza: sia le pubblicazioni che le mostre hanno ceduto la loro centralità ad altro. Io rimango fedele alla realtà dove i metodi vanno sperimentati. Avere una buona dose di anticorpi che ti permetta di essere autonomo rispetto a quello che succede intorno, reputo sia uno dei modi per poter far avanzare il discorso artistico.
CS: Il tuo percorso unico dal lavoro editoriale alla direzione di una galleria offre un punto di vista distintivo. Come ha influenzato la tua sensibilità editoriale il tuo approccio curatoriale, in particolare riguardo alla selezione di artisti le cui pratiche resistono a categorizzazioni facili?
TC: La risposta a questa domanda penso sia già contenuta all’interno della risposta alla prima. La categorizzazione come giustamente l’hai chiamata tu è dannosa in molti casi. Sicuramente l’essere ascrivibile all’interno di una categoria facilita la comunicazione, ma fa appassire velocemente i sogni. L’essere riconoscibili senza essere categorizzati è la cosa più bella che possa accadere.
CS: In un’epoca in cui i confini tra i media tradizionali sono sempre più porosi, come concettualizzi la tua galleria come spazio discorsivo che si estende oltre il formato espositivo fisico?
TC: Darti una risposta è molto difficile. Mi viene da dire che alcune opere che ho esposto hanno già dentro di sé una componente immateriale, ecco, cerco di seguire questa indicazione, facendola scivolare oltre gli spazi fisici. Non sempre funziona e non sempre le opere hanno questa componente. Quando assente, evito le forzature.
CS: Il panorama dell’arte contemporanea ha assistito a una proliferazione di modelli istituzionali ibridi. Dove posizioni la tua galleria all’interno di questo complesso ecosistema, in particolare in relazione alle gallerie commerciali più consolidate e agli spazi no-profit?
TC: La mia è una galleria commerciale, che però è nata dallo stretto rapporto con alcuni artisti, fin dalla giovane età. Frequento alcuni di loro da sempre, stiamo crescendo insieme prima di tutto nella vita. Questo non è un vanto, ma sicuramente non sono alla ricerca a tutti i costi di un modello istituzionale. Le gallerie commerciali più consolidate, per loro interesse, hanno giustamente più necessita a preservare questo modello.
CS: Come ha influenzato la tua base critica a Flash Art il tuo approccio alla coltivazione di relazioni a lungo termine con artisti il cui lavoro può sfidare i paradigmi convenzionali del mercato?
TC: Anche in questo caso la risposta è contenuta già in alcune precedenti. Penso che i rapporti a lungo termine siano la base per far crescere e far vivere una galleria. Quando lavoravo da Flash Art gli artisti che ora mi affiancano stavano sviluppando il loro percorso. Sia io che loro abbiamo cominciato un confronto, che è stato ed è prima di tutto personale. Il paradigma del mercato ci ha toccati tutti, è innegabile. Come su altri fronti ci siamo attivati per cercare di capirne il funzionamento e lo stiamo ancora facendo.
CS: Potresti riflettere sulle dimensioni etiche della transizione da critico a gallerista, in particolare per quanto riguarda le potenziali tensioni tra autonomia critica e sostegno agli artisti rappresentati?
TC: Autonomia è una bella parola. Alcuni artisti però mi hanno fatto notare il rovesciamento della medaglia: la dipendenza. La dipendenza, ad esempio, da un’altra persona è qualcosa che ti pone in una condizione di vulnerabilità. Sicuramente pensare ad un’autonomia critica è eccitante, ma trovo più interessante pensare a questo rapporto dentro al dialogo dettato dalla dipendenza.
CS: La tua nuova galleria emerge in un momento di profonda trasformazione nel panorama artistico globale. In che modo la sua identità architettonica, la programmazione curatoriale e il posizionamento geografico riflettono una visione specifica delle traiettorie future dell’arte contemporanea? E come questa visione dialoga con le tue precedenti esperienze editoriali?
TC: Ci siamo appena spostati nel nuovo spazio in Via Pietro Crespi, abbiamo sempre occupato spazi e quartieri popolari. Davanti a noi c’è un palazzo che ha debiti con il comune di Milano per migliaia di euro. Penso che in questi luoghi si possano respirare i problemi della gente, vedere nuove possibilità di vita, fare riunioni nascoste.