“There’s No Place Like Home” distilla una nuova narrativa dell’idea di casa: intrigante e disfunzionale, classica, accogliente, seducente ma anche scomoda e politica. Identità, distopia, eterotopia convivono in opere che mettono in discussione architettura, spazio, oggetti e funzioni.
“There’s No Place Like Home” si ricollega al discorso critico di alcuni degli esperimenti più interessanti sull’idea di domesticità, da Womanhouse di Judy Chicago e Miriam Schapiro (Los Angeles, 1972) ai lavori dei Settanta di Dan Graham e Robert Smithson (California, 1972). Attraverso questa prospettiva analitica, “There’s No Place Like Home” decostruisce lo stereotipo della casa borghese e le strutture di potere sottese al concetto tradizionale di abitare, smascherando le matrici patriarcali, egemoniche ed eteronormative che lo informano. Per farlo, la mostra riunisce alcuni artisti, architetti, registi, scenografi che fanno parte di un contesto estremamente interessante che ruota intorno a Milano e intorno al tema della casa. Alcuni degli artisti in mostra sono amici, altri si conoscono e condividono tempi e luoghi, gallerie, musei e studi. Alcuni di loro vengono dalla classe di Alberto Garutti all’Accademia di Brera, altri hanno lasciato Brera per l’ECAL affascinanti dall’estetica di John Armleder che da Ginevra irradia Losanna. Alcuni ospitano progetti di altri artisti nel loro studio, così come fa NM3 nell’ufficio con vetrina di via Farini. Molti di loro hanno avuto inviti in musei e istituzioni internazionali di rilievo. La storia di questi artisti, che non sono un gruppo ma condividono un contesto da cui sono partiti per andare a vivere a Berlino, Zurigo, Anversa, Norimberga merita di essere raccontata. “There’s No Place Like Home” è una libera interpretazione, uno sguardo parziale, che distilla identità, pensieri, opere, tracce e frammenti di un fare artistico poetico, politico e internazionale. “There’s No Place Like Home” invita artisti, registi, architetti di tre generazioni nati fra gli Ottanta e gli anni Zero e li coinvolge a riflettere sull’idea di casa. Il risultato è un percorso costellato d’identità, ossessioni, pensieri critici, paure e desideri dall’abisso dell’antropocene.
Jules e Jim (Jim),(2025) e Jules e Jim (Jules), (2025) di Davide Stucchi realizzate per “There’s No Place Like Home” sono due intriganti sculture luminose che introducono il contesto di questa mostra che si sviluppa come un set cinematografico punteggiato da indizi di echi internazionali e close up su contesti intimi personali. Enigmatiche presenze in cui risuona da lontano l’immaginario del film di François Truffaut che disintegra l’idea borghese di coppia, casa e famiglia, le opere di Stucchi evocano esistenze, corpi, presenze. Stucchi ama il cinema e la letteratrura, il suo lavoro è fatto di gesti minimi, oggetti trovati, linee essenziali che spostano il significato delle cose, ribaltano il senso del reale e insinuano narrazioni intime, poetiche, politiche e, spesso, giocose. In quest’opera l’artista lavora sulla luce che dalle sculture riverbera sui muri e si riflette nella stanza per evocare un’intricata storia d’amore che forse si è consumata proprio in questa stanza. Il riverbero di Stucchi conduce a Residence Acquario II, (2016) di Alessandro Agudio, una fotografia di nani e oggetti decorativi collezionati dal padre dell’artista, accumulatore seriale. Agudio la trova in un vecchio rullino di una macchina fotografica del genitore, la sceglie e la produce come propria opera mettendo in scena un frammento di quotidiano fra David Lynch (Twin Picks), e quell’atmosfera claustrofobica e surreale della Brianza di Carlo Emilio Gadda, scrittore fondamentale per l’artista. Agudio lavora da anni sul tema della casa come processo d’identità, proprio a iniziare dalla sua casa di famiglia in Brianza, quella in cui è cresciuto. Fioriera I (La Giocosa), Fioriera II, (La Sciatta), Fioriera III (La Borsani), (2023) che scandiscono la sala principale di “There’s No Place Like Home”. Sono tre sculture fatte con il legno di tre stanze della casa in cui l’artista è cresciuto: la camera dei genitori, la sua camera e il soggiorno. I segni del tempo nei legni sono le tracce tangibili di vite private chiuse nelle mura domestiche dove filtra l’estetica del luogo, dall’artigianato al centro commerciale, passando per il design degli interni e l’architettura di villette a schiera. Un’estetica vista dall’interno, (perché l’ha vissuta), e dall’esterno, (perché l’ha osservata da lontano), da Agudio che con attitudine concettuale, rilegge in prospettiva la complessità culturale di quel microcosmo domestico e sociale.
La prospettiva di Keine Schufa keine Anmeldung, keine Anmedung keine Schufa (2024), una delle più recenti opere pittoriche di Beatrice Marchi in cui si staglia il suo immaginario, che frantuma la storia dell’arte e della pittura in uno storytelling personale ironico e perturbante. L’impossibile processo burocratico per affittare casa a Berlino è una storia talmente reale da sembrare surreale, come straniante è anche il ritornello del sonoro della video animazione in mostra Your reflection is my possession of your projection in my direction che procede al ritmo di una melodia ossessiva e ripetitiva composta e interpretata dall’artista stessa. Spesso personaggio e interprete delle sue performance Beatrice Marchi maschera dietro travestimenti perturbanti e grotteschi, fragilità, precarietà, paure e desideri esistenziali. Mentre nella vido animazione in mostra l’identità diventa evanescente e labile nei riflessi dei nostri molteplici device. Gli stessi riflessi impalpabili di passaggi e attraversamenti che intercettano i Light Switch ‘estroversi’ di Davide Stucchi. L’artista li ha installati e quasi mimetizzati nello spazio, e come interruttori accendono l’attenzione di chi li nota. E non tutti li noteranno.
“There’s No Place Like Home” è una mostra che richiede ascolto e attenzione per navigare in un’idea di casa dalle molteplici identità narrative e letterarie. Un ascolto che passa attraverso Roommates, (2025) la performance di Sabrina Zanolini che inventa ambigui personaggi letterari che abitano la casa, le nature morte di Caterina De Nicola, che interpreta un genere classico della storia dell’arte alla luce della crisi climatica dell’era dell’antropocene. Things you can’t buy: new hours and services (leaves), (2025) è un’idea di tempo e natura scandita da elementi che diamo per scontati e che, invece, non sono sostituibili. Foglie, sculture fatte d’oggetti trovati, sono un pensiero critico sul gesto estetico. Radicali e disfunzionali Sacks #19, (2017) e Sacks #13, (2016) le sculture di Markus Schinwald che condividono la stessa stanza affacciata su via della Spiga, disintegrano più che decostruire la funzione di gambe di eleganti mobili di foggia settecentesca. Qui questi elementi lunghi ed eleganti di mogano scuro non sostengono nulla ma anzi sono appesi al muro in fodere di lino bianco a sfidare l’idea di casa e di white cube. Quasi a terra in questa stanza c’è un pappagallo, una citazione letteraria, qui Elisabetta Laszlo nel video Goodboy, (2023) scandisce la meraviglia e l’impossibilità di addomesticare la natura.
Sulla natura riflette Gianni Pettena. Nato a Bolzano nel 1940 quest’architetto, scrittore, intellettuale, affascinato dal West degli Stati Uniti dove ha lavorato per anni, fra deserti e Minneapolis, è un perno importante di questa mostra transgenerazionale per la sua idea di casa e di architettura. L’anarchitetto. Portrait of the Artist as a Young Architect, (1973) distilla un pensiero critico dell’architettura di cui la sua casa all’Isola d’Elba fatta d’aria, pietre, vetri e alberi è un simbolo vivente. Per Pettena l’idea di casa e di architettura è paradossale se paragonata alla potenza costruttiva e generativa della natura e delle montagne. Ice House II Minneapolis, (1971), in mostra è un manifesto politico di riappropriazione da parte della natura di una casa anonima, un quartiere anonimo.
Al contrario NM3, Nicola Ornaghi, Delfino Sisto Legnani, e Francesco Zorzi che vengono dal Politecnico, e sono devoti di Aldo Rossi, ma grandi estimatori di Pettena, (d’altronde Zorzi è di Moena, come Pettena), ragionano sull’autonomia dell’architettura producendo design industriale e progetti custom made, come lan consolle di quasi quattro metri progettata per “There’s No Place Like Home”. Qui NM3 gioca con ironia su monumentalità e fuori scala dell’oggetto che diventa sostegno per esporre una minuscola opera di Sabrina Zanolini, un libro/scultura d’argento, in tre esemplari, Notes on Excellence, (2025) che disintegra il mito della perfezione e dell’efficienza imposto dall’era del capitalocene.
Su economia e sistemi di produzione riflette l’opera di Emanuele Marcuccio che mette in questione l’autorialità e la produzione artistica limitando al minimo il suo intervento nella realizzazione e progettazione di eleganti lastre d’acciaio verniciate a polvere. Tuttavia in Marcuccio l’oggetto, like it or not, ha una presenza assertiva, (e romantica), e opere come Specchio, (2025), o Lampione, (2025), sviluppano interessanti aspetti narrativi. L’intera stanza illuminata da tre finestre: studio, boudoir, o living room, è cristallizzata nelle inquietanti presenze di due dei Roommates che qui sono incastonati nello strombo della finestra, algidi, immobili, minacciosi, ma non fino in fondo, guardano dritto negli occhi alcuni visitatori, creando un’atmosfera di disagio e meraviglia.
La stessa sospensione dei disegni di Antonio Allevi, alla sua prima mostra, che scandaglia la relazione fra corpo e spazio in un processo di calcoli e proiezioni geometriche. Infine in una sera di primavera Fabio Cherstich, regista, scenografo, scrittore di racconti, a volte interprete dei suoi testi come nell’ultimo lavoro Visual Diary, in cui narra vite, opere, pensieri in parte dimenticati dalla storia di Patrick Angus, Larry Stanton e Darrell Ellis sullo sfondo della scena queer newyorkese degli Ottanta, realizzerà Guided Tour. A live Storytelling. Creato per “There’s No Place Like Home”, immaginato per la prima volta in una sera di dicembre con profumo di neve di fronte alla Basilica di Sant’Ambrogio a Milano, il lavoro di Cherstich sarà una sorpresa in una notte di primavera, un percorso fra reale e immaginario, autobiografia e narrazione, in un discorso critico e poetico sul contesto che avvolge questa mostra.
Testo di Cloe Piccoli