Dentro la tempesta. Geografie emotive di una storia coloniale. Una conversazione con Belinda Kazeem-Kamiński. “Aerolectics” Kunst Meran Merano Arte / Merano di

di 19 Maggio 2025

“Scrivo questo non necessariamente per vanità, ma soprattutto per ricordarmi l’importanza di un percorso di presa di coscienza collettiva: una società che vive nella negazione o, addirittura, nella celebrazione della storia coloniale non permette che siano creati nuovi linguaggi. Né permette la responsabilizzazione – non la moralizzazione – essenziale per creare nuove configurazioni di potere e conoscenza. Eppure, è solo quando si riconfigurano le strutture di potere che molte identità marginalizzate possono, finalmente, riconfigurare a loro volta la concezione del sapere: Chi conosce?
Chi può conoscere? Cosa si può conoscere?
E la conoscenza di chi è?”

Grada Kilomba, “Memorie della piantagione” (2008, traduzione italiana 2021)

Giovanna Manzotti: Belinda, ho visto di recente la tua mostra personale “Aerolectics” presso la Kunst Meran Merano Arte. Parte di “The Invention of Europe” – programma triennale ideato e curato da Lucrezia Cippitelli e Simone Frangi che riflette sull’idea monolitica di Europa e sulla sua costruzione narrativa – il tuo progetto si concentra nello specifico sul ruolo che il lavoro missionario e il suo sistema hanno avuto in Alto Adige nella definizione delle relazioni coloniali tra Europa e Africa, e sulla conseguente diaspora africana forzata, in particolare nei Paesi di lingua tedesca. Potresti dirci qualcosa in più su ciò che rende questa regione e la Linea Insubrica così rilevanti ai tuoi occhi?
Belinda Kazeem-Kamiński: Sono sempre stata interessata alla specificità dei luoghi: non solo collocare il lavoro in uno spazio, ma lavorare con esso, con le sue trame, con i suoi silenzi e con ciò che potrebbe trovarsi appena sotto la superficie. Nell’estate del 2024 ho trascorso tre settimane a Merano con l’intenzione di ascoltare, camminare e vedere cosa potesse emergere. Quando mi sono imbattuta nella storia di Asue*, Schiama* e Gambra*, tre ragazze africane portate negli anni Cinquanta del XIX secolo dal sacerdote italiano Niccolò Olivieri in un convento di Orsoline a Brunico, non ho avuto dubbi: dovevo seguire questa pista. L’incredulità e la sorpresa che ho incontrato quando ho iniziato a condividere le mie prime idee, hanno rivelato qualcosa di essenziale. Le storie delle oltre ottocento ragazze africane portate in Europa da Olivieri indugiavano ancora in questo spazio geografico. Sono letteralmente incorporate nel paesaggio. “Aerolectics” è diventato così un modo per soffermarmi su questa consapevolezza e per collegare i miei pensieri con la mia comprensione della Linea Insubrica come un campo di tensione, in cui diversi modi di essere in relazione si scontrano.

GM: A cosa si riferisce il titolo del progetto? Qual è il fil rouge che attraversa e lega le opere che, tra l’altro, sono state tutte appositamente concepite per questa mostra?
BKK: Il titolo “Aerolectics” è un termine “di lavoro” che ho ideato ispirandomi alla nozione di tidalectics di Kamau Brathwaite, grazie alla quale l’autore guarda alle maree intese come una modalità ciclica e relazionale di pensare alla storia dei Caraibi. Mentre Brathwaite si basa sul movimento delle maree, io mi confronto con l’elemento dell’aria, le sue atmosfere, pressioni e correnti. Nella mostra, Asue* è immaginata come una tempesta, un’ondata di energia compressa e repressa che irrompe nel presente e smuove ciò che è stato a lungo messo a tacere o sedimentato. Il fil rouge della mostra è questo movimento mutevole della storia, della memoria, dell’aria. Attraverso video, sculture, suoni e testi, le opere diventano veicoli atmosferici. Non ricostruiscono una narrazione fissa, ma creano uno spazio carico – una sorta di sistema meteorologico ancestrale – in cui la storia di Asue* e delle altre ragazze circola e accede alla visibilità.

GM: Al centro della tua pratica multidisciplinare emergono alcuni temi come quello legato alle nozioni di archivio – con le sue lacune, i suoi vuoti, le sue contraddizioni – e di memoria, dimenticata, taciuta, evocata. Come hai già anticipato, per questo progetto espositivo hai scavato negli archivi del Convento delle Orsoline a Brunico [una città situata proprio nel cuore della Val Pusteria, non lontano da Merano]. Puoi dirci come ti sei relazionata al materiale d’archivio che hai inglobato nel tuo discorso artistico e che hai poi successivamente riadattato per la realizzazione finale dell’opera? E che ruolo ha avuto la collaborazione con le persone che hai incontrato durante la tua ricerca per questa mostra e per altri tuoi progetti in generale?
BKK: La mia pratica inizia con un’apertura al luogo, all’incontro e a ciò che emerge quando si insiste con i silenzi dell’archivio. Mi avvicino ad esso come a uno spazio di ascolto, un terreno di contraddizioni, omissioni e proiezioni spesso violente. L’idea di Saidiya Hartman del “coro” è stata una guida costante nel mio lavoro: un modo per immaginare un’espressione collettiva e ancestrale che si contrappone alla voce singolare e autoriale dell’archivio. Il coro offre un modo per dare spazio a coloro a cui non è mai stato permesso di raccontare le proprie storie, o le cui vite sono state ridotte a note marginali nella storia ufficiale. È un metodo riparatore e ancestrale di lavorare accanto ai cosiddetti morti, non per correggere o redimere le loro storie, ma per rifiutare la loro scomparsa. Quando ho intravisto le prime tracce di Asue*, Schiama* e Gambra* nell’archivio, è stata la descrizione di Asue* a colpirmi maggiormente. Non era vista come una bambina in difficoltà, ma come un disturbo. Quel linguaggio mette a nudo la violenza morale dell’istituzione e la sua incapacità di riconoscere il suo dolore, la sua rabbia e il suo spirito. Da quel momento ho iniziato a immaginarla letteralmente come una tempesta, come una forza capace di sconvolgere il presente. Questa tempesta – emotiva, storica, meteorologica – è diventata un modo per lavorare attraverso gli strati di sedimenti che si sono sovrapposti alla sua storia. I paesaggi sonori, le invocazioni, la coreografia delle installazioni: tutto serve a evocare la presenza tempestosa di Asue* e a invitare gli spettatori a sedersi con lei.

GM: Quali sono i riferimenti culturali, concettuali e teorici alla base della tua formazione e del tuo percorso professionale come artista, scrittrice e accademica austriaca il cui pensiero è radicato nella teoria femminista nera?
BKK: Il mio percorso di artista, scrittrice e studiosa è stato plasmato dalla teoria femminista nera, dalla critica decoloniale e dall’interesse per gli emarginati e i nascosti. Il pensiero femminista nero – in particolare quello di pensatrici come bell hooks e Audre Lorde, e in seguito Fatima El-Tayeb, Nicola Lauré al-Samarai, Alexander Weheliye, Christina Sharpe e Saidiya Hartman – mi ha aperto la strada per creare spazio a ciò che spesso viene soppresso: dolore, rabbia, attrazione, repulsione… Attraverso film, performance, suono o testo, mi propongo di convocare diversi modi di conoscere. Il mio processo basato sulla ricerca fonde la teoria con l’intuizione, la presenza e la collaborazione. Non sono al centro, ma ascolto, accolgo e plasmo.

GM: La mostra analizza le nozioni di spazio (geografico, privato e pubblico), di paesaggio (come testimone attivo) e di storia (dello spostamento e dello sfruttamento). Puoi raccontarci brevemente come hai lavorato su questi tre livelli e come ad un certo punto essi si sono fusi in un unico grande impulso?
BKK: In questa mostra esploro lo spazio come territorio geografico ed emotivo plasmato da storie di deportazione e sfruttamento. Il paesaggio non emerge come sfondo neutro, ma come testimone attivo. Nell’opera Vermessung. Von der Landschaft aus (2025) che apre la mostra, per esempio, le mappe storiche sono bucate da spilli d’argento che segnano i luoghi del rapimento e dell’assimilazione forzata delle ragazze africane. Qui, il paesaggio contiene le loro storie, rivelando come le ambizioni coloniali si siano iscritte nella geografia. Attraverso questo e altri lavori, mi propongo di affrontare lo spazio, il paesaggio e la storia come entità interconnesse e vive.

GM: L’allestimento del progetto è molto in linea al modo in cui le opere sono in grado di rivelarsi in maniera sincera a “naturale”, come singoli elementi che, da un punto di vista corale, cercano di portare alla luce un capitolo di storia completamente dimenticato. Questa spinta è molto potente e preziosa. Come ti sei relazionata allo spazio di Kunst Meran Merano Arte?
BKK: Quando ho visitato per la prima volta Kunst Meran Merano Arte, sempre nell’estate del 2024, sono stata immediatamente attratta dalla sua architettura: il modo in cui l’edificio si sviluppa verticalmente, quasi a spirale, con la luce che si sposta a ogni livello, suggerendo sia l’ascesa che l’immersione. Questa esperienza spaziale è diventata fondamentale per la concezione della mostra. Ho capito che l’architettura stessa poteva guidare non solo il movimento dei visitatori, ma anche il loro viaggio emotivo e sensoriale. Pensare attraverso i quattro elementi – terra, acqua, fuoco, aria – mi ha dato una struttura che corrispondeva naturalmente alla verticalità dello spazio. Si parte da terra, con la terra, che è l’ancoraggio della narrazione al primo piano; si passa attraverso l’acqua, incontrando il film Nursery Rhymes. (Holy) Water (2025) e si sale al fuoco, dove il video Oya! Fire (2025) segna il culmine emotivo della mostra. È anche qui che i visitatori si trovano faccia a faccia con la fonte dell’urlo che li accompagna per tutta la mostra, sin dall’ingresso. Infine, raggiungendo il livello più alto, si arriva all’aria, dove il suono diventa più diffuso e l’architettura stessa contribuisce a trasportare e intrecciare gli echi dei video. Lavorando in questo modo, lo spazio non è mai stato solo un contenitore, ma è diventato un collaboratore attivo, che ha plasmato il modo in cui le opere si sviluppano singolarmente e insieme.

GM: “Aerolectics” accoglie i visitatori con un omonimo testo murale site-specific che esplora appunto la forza della roccia, dell’acqua, del fuoco e dell’aria. Anche quest’opera risponde alla verticalità dello spazio espositivo, funzionando al contempo come una sorta di mappa poetica con una struttura non lineare e con ritmi ciclici che sembrano risuonare lungo l’intero percorso espositivo. Come hai sviluppato la connessione tra queste forze – ognuna delle quali rappresenta un diverso aspetto della sopravvivenza, della lotta e del rinnovamento – che cambiano e si rimodellano continuamente all’interno della mostra secondo in livelli narrativi e temporalità multiple? Riesci ad immaginare come che il pubblico sperimenterà questa risonanza nello spazio?
BKK: Come dici tu, nello sviluppare questo testo, ho voluto che i quattro elementi non solo rappresentassero forze distinte di sopravvivenza, lotta e rinnovamento, ma anche che funzionassero come portatori di temporalità multiple all’interno della mostra. Ogni elemento si muove in modo diverso: la roccia parla del tempo geologico e delle forze lente e schiaccianti della storia; l’acqua scorre, tira e trasporta, rispecchiando lo spostamento e la migrazione; il fuoco brucia improvvisamente, incarnando la resistenza e i momenti di rottura; l’aria, intangibile e pervasiva, diffonde la memoria e la perdita come una tempesta che rifiuta il contenimento. I visitatori si muovono attraverso queste forze elementari, ma non in linea retta. I suoni sovrapposti, brillantemente composti da Bassano Bonelli Bassano, sound artist viennese e collaboratore fidato, collegano i vari fili della mostra. Seguendo pensatori come Kamau Brathwaite e Édouard Glissant, ho abbracciato la non linearità e i ritmi ciclici, permettendo alle storie di sovrapporsi e risuonare piuttosto che risolversi. Il pubblico è invitato a entrare in questo movimento: invece di procedere attraverso una narrazione chiusa, incontra echi, ritorni e rotture. Non posso parlare per i visitatori, ma volevo che avessero la sensazione di muoversi quasi all’interno della poesia; il significato emerge lentamente, in frammenti, sensazioni e riverberi che si accumulano mentre si muovono nello spazio e nel tempo.

GM: Il video Rub, Rock, Earth. Throat Clearing (2025) introduce lo spettatore nella storia di Asue*, arrivata insieme a Schiama* e Gambra*, al convento delle Orsoline l’11 gennaio 1855. Le loro storie si intrecciano con quelle di Olivieri, rivelando gli intrecci tra le pratiche missionarie cristiane e il rapimento dei bambini africani nel XIX secolo. Sono curiosa di sapere come la storia di questi tre personaggi femminili – con particolare riferimento ad Asue*, nota per il suo temperamento “istintivo” – abbia influenzato il tuo modo di concettualizzare e dare forma al lavoro, sia dal punto di vista narrativo ma anche più metaforico. Che cosa hai scoperto? E, allargando la trama, hai voluto evidenziare un particolare tipo di sentimento attraverso le loro voci soppresse?
BKK: La storia di Asue*, Gambra* e Schiama* – e in particolare la rappresentazione di Asue* come “impulsiva” – mi ha sfidato a trovare un linguaggio visivo e narrativo che potesse contenere la complessità senza fissarla ad un’immagine. In Rub, Rock, Earth. Throat Clearing, ho iniziato non con le loro biografie ma con l’attrito che le circonda: lo sfregamento tra storia e memoria, silenzio e parola, corpo e paesaggio. Asue*, in particolare, è diventata una sorta di asse, non un simbolo di impotenza o di trauma, ma di resistenza, eruzione e trasformazione. Il suo cosiddetto temperamento è diventato un dispositivo metaforico e formale: movimento, interruzione, attrito. I corpi in movimento, il paesaggio sonoro tremolante e le prospettive mutevoli del film rispecchiano l’instabilità che lei portava con sé nell’archivio: il rifiuto di essere ridotta. Lo spostamento di focus che si vede nel video – dal convento alle Alpi, dalla ragazza alle placche tettoniche – non è stato un allontanamento, ma un approfondimento. Mi interessava capire come queste scale apparentemente disparate (personale e geologica) si parlassero. La Linea Insubrica è diventata un luogo in cui i mondi si incontrano e resistono all’assimilazione, una linea di faglia, sia letterale che concettuale. Così come Asue* ha sconvolto l’ordine istituzionale del convento cattolico, queste forze geologiche hanno sconvolto il terreno sottostante. Volevo esplorare questa risonanza. In termini di narrazione, mi sono affidato alla frammentazione, all’eco e alla circolarità. Non stavo cercando di ricostruire la storia di Asue*, ma di rispondere ai suoi riverberi, iniziando con una sorta di “schiarimento della voce”, come scrive Tina Campt in Listening to Images (2017). Si tratta di una metafora e di un metodo. È un modo per riconoscere il peso di parlare in un silenzio modellato dalla cancellazione. La sensazione che volevo sottolineare è quella di un’immobilità carica, una tensione che si accumula, trema, ma non si risolve. In questo spazio tra schermi, corpi e storie, spero che gli spettatori possano percepire non solo la perdita, ma anche la persistenza della presenza. Un rifiuto di scomparire.

GM: Il secondo video in mostra, Nursery Rhymes. (Holy) Water, è un film in 16 mm che narra del battesimo di queste tre ragazze. In un evento che dovrebbe celebrare lo spettacolo del trionfo e del potere missionario – per loro il battesimo era una missione divina, un mezzo per “salvare” individui non europei e non cattolici da un immaginario vuoto morale –, tu hai deciso di interrompere questa narrazione posizionando le ragazze come agenti attivi nella e della loro stessa storia. Ad un certo punto entri anche tu come personaggio attivo sul set, apparendo come regista e “sorella” delle ragazze. Qual è stato l’impulso alla base di questo lavoro?
BKK: L’idea di quest’opera è nata sempre durante il mio soggiorno di ricerca presso il convento delle Orsoline. Prima di andarci, speravo fortemente di trovare un’immagine delle ragazze. Ma non ce n’era neanche una. Questa assenza non mi ha sorpreso, ma mi ha colpito profondamente. Mi ha ricordata che la questione dell’immagine – chi è reso visibile e come – non è mai neutra. Ho iniziato a pensare al battesimo come a un violento momento di cancellazione simbolica: nomi, lingue, sistemi di parentela sono stati sovrascritti dalla Chiesa. L’acqua, che può purificare o benedire, qui segna la rottura e la perdita. Sono tornata a film come Daughters of the Dust (1991) di Julie Dash e all’opera di Carrie Mae Weems, che racchiudono entrambi la complessità dell’atto di immaginare la femminilità nera. Con la sua cinepresa da 16 mm, Lydia Nsiah, artista e regista, ha catturato magnificamente questa celebrazione della sorellanza nera attraverso il tempo. Nel film io stessa compaio come fotografa, impostando l’obiettivo, regolando la composizione, congelando l’immagine. Questa visibilità è stata per me molto importante. Non dà una risoluzione alla violenza dell’archivio, ma vi risponde. La macchina da presa diventa uno strumento di rifiuto e di cura, non di cancellazione. Non mi interessava una ricostruzione. Volevo portare queste ragazze in un altro campo visivo, plasmato dal lutto e dall’immaginazione, dalla presenza e dalla cura.

GM: Alcuni oggetti scultorei in mostra rafforzano la percezione dell’impotenza africana e della carità europea, la cui logica persiste ancora oggi. Le opere Untitled (Prototype Nkisi/Repurposed Savings Box) e il relativo Untitled Untitled (Lash. Linger. Load/Nkisi) (tutti del 2025) procedono in tandem in questa direzione, risvegliando il potere di oggetti e tradizioni materiali investiti di energia sacra e protezione spirituale. Cosa ti affascina maggiormente della figura di Nkisi e come essa si intreccia con la storia di Asue*, Gambra* e Schiama*? La materia e i simboli sembrano essere qui la forza principale.
BKK: Direi piuttosto che le opere a cui ti riferisci contrastano e sconvolgono la percezione stereotipata dell’“impotenza africana”, recuperando e trasformando un oggetto legato alle pratiche missionarie – una scatola di raccolta di offerte che raffigura un bambino africano. Il mio interesse per le figure Nkisi deriva dal loro ruolo potente all’interno delle tradizioni Kongo. Gli Nkisi non sono oggetti passivi; sono guardiani, testimoni e anche vendicatori – ritengono le persone responsabili delle promesse fatte, soprattutto di quelle non mantenute. Nel contesto di questa mostra, la promessa non mantenuta è la cosiddetta “salvezza” che missionari, preti e suore pretendevano di offrire alle bambine. All’opposto, le loro azioni hanno portato allo spostamento forzato, all’assimilazione e alla morte prematura di molti di queste bambine. Le scelte che ho operato sui materiali sono intenzionali. Per Untitled (Lash. Linger. Load/Nkisi) – che ho creato insieme a Masimba Hwati, artista viennese che lavora con il suono, la scultura, il video e la performance – abbiamo usato la ceramica invece del tradizionale legno, perché la ceramica coinvolge tutti e quattro gli elementi – terra, acqua, fuoco e aria – che sono al centro della mostra. L’argilla è fragile ma duratura, proprio come le storie frammentate e persistenti della diaspora africana. I chiodi incastonati nelle figure di Nkisi si riferiscono specificamente alle migliaia di bambini africani rapiti nell’ambito dei progetti missionari: ogni chiodo segna un corpo, una vita, una promessa tradita. In questo modo, Untitled (Lash. Linger. Load/Nkisi) si ricollega anche a Vermessung von der Landschaft aus, dove le mappe venivano trafitte con degli spilli. Anche in quel caso, la perforazione segna atti di violenza, spostamenti e storie irrisolte, rendendo visibile ciò che spesso è nascosto o dimenticato.

GM: Alla fine del percorso espositivo, al terzo piano, è installato il video Ọya! Fire, nel quale una performer mascherata danza seguendo una coreografia che riflette un processo di trasformazione e liberazione, sfidando lo stereotipo della “donna nera arrabbiata”. In un crescendo di urla, gli spettatori si confrontano con una presenza metafisica la cui espressione e trasformazione dell’ira femminile è infusa di una forma di energia ancestrale. Chi è Ọya e come è metaforicamente legata ad Asue*?
BKK: Ọya è l’orisha Yoruba delle tempeste, del vento, della trasformazione, del cambiamento radicale e della rabbia femminile. È una forza di rottura e di rinnovamento. Nel video, essa si muove attraverso la performer mascherata, è invocata ma mai contenuta. Il video è stato per me più di una registrazione; è diventato un rituale in movimento. Il suono e l’immagine si scontrano con le urla, il fruscio della rafia, il battere dei piedi contro il suolo, per arrivare a qualcosa di crudo e catartico. Lo schermo diventa una soglia, dove la rabbia non si esibisce per lo sguardo di chi guarda, ma chiede di essere sentita. Sia Ọya che Asue* trasportano un tipo di energia che il mondo cerca di sopprimere: la rabbia femminile, in particolare la rabbia delle donne nere, quella che minaccia di rompere ciò che è stato tenuto saldamente al suo posto. In Ọya! Fire, questa energia è sacra. L’opera recupera la rabbia non come qualcosa da gestire, ma come una forza da onorare, una tempesta che apre la strada a qualcosa di nuovo. Asue* non era solo una ragazza del convento; era una tempesta che le suore non riuscivano a comprendere. La chiamavano selvaggia, indomabile. Ma in realtà era una ragazzina strappata alla sua cultura, alla sua famiglia, alla sua lingua, costretta in un mondo che faceva poco spazio al suo spirito. Le sue urla non erano segni di cattivo comportamento. Io le ascolto come espressioni di trauma e di resistenza, come un rifiuto di essere plasmata dall’idea di “accettabile e corretta” immaginata di qualcun altro.

GM: Nella stessa stanza, la maschera di rafia che vediamo essere indossata nel video, compare sul pavimento, come una testimonianza scultorea, un oggetto di scena dalla forza purificatrice. Cosa hai voluto sottolineare con questa interazione tra le immagini in movimento e la presenza di un oggetto fisico?
BKK: Penso da molto tempo alla rabbia delle persone nere, al modo in cui viene controllata, repressa, resa illeggibile. E, naturalmente, a come spesso sembra non esserci spazio per questa energia e a quanto limitata possa essere la capacità delle persone bianche di contenere o testimoniare la rabbia nera. La maschera danzante di Ọya! Fire è nata come risposta a questa situazione. L’ho immaginata come una sorta di offerta: e se potessi creare una maschera che dia spazio alla rabbia? Una maschera che offra un rifugio, un luogo dove iniziare a sentire, esprimere e indagare la rabbia nera? La storia di Asue* mi ha permesso di generare questo gesto. Esplorando i materiali, sono stata attratta dalla rafia: la sua consistenza, il suo suono. È interessante notare come la rafia sia utilizzata in varie tradizioni di maschere di danza africane, ma anche in quelle di maschere cerimoniali alpine. Si tratta di tradizioni molto diverse, ma che utilizzano la maschera come strumento di connessione, celebrazione e trasformazione. Sebbene non stia invitando il pubblico a indossare letteralmente la maschera danzante, la sua presenza nella sala porta con sé quell’impulso originario. Rimane come un invito silenzioso, una traccia del gesto immaginato. Anche nell’immobilità, trattiene l’energia della performance. Ci ricorda che la rabbia espressa nel video non è solo performativa: è profondamente incarnata e ancestrale.

[I nomi Gambra*, Schiama* e Asue* sono seguiti da un asterisco in quanto non è possibile verificare se fosse un’autodesignazione.]

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Giovanna Manzotti