fuori, davanti agli occhi. La scrittura come convalescenza. Una conversazione con Lea Melandri di

di 30 Maggio 2025

Ho scritto per essere raggiunta, ma anche per marcare una distanza, per aprire un varco alla memoria e per consolarmi di averla perduta, per segnalare il bisogno d’amore e per ritenermi paga di averlo trovato per altre vie.

Da Alfabeto d’origine di Lea Melandri (2017).

La prima volta che ti ho sentita è stato al telefono. Ero su un treno Milano-Roma, quello che mi stava definitivamente portando via dopo anni in quella città. Non so perché scelsi quel momento per chiamarti. Forse perché tu, al contrario di me, hai fatto di quel treno per Milano una via del cuore, una presa di coscienza. Come racconti nel testo Un sessantotto durato un decennio (2019)1, appena arrivata hai cominciato a scavare dentro gli archetipi di un dolore che non hai mai voluto lasciare lì, ma di cui volevi comprenderne le parole – che alla fine erano immagini – per svilupparne una teoria della sofferenza. Chi ti ascolta parlare, nella tua voce sente un suono inaspettato. Come se quel vuoto che hai scavato producesse ogni volta che lo indaghi una eco talmente rumorosa da divenire spaventosa. È difficile stare davanti al ‘dolore degli altri’, diceva Susan Sontag, perché spesso non si hanno gli strumenti per accogliere parole senza filtri. In questa geografia della sofferenza, hai utilizzato la scrittura come una bussola sul pendio di un monte minaccioso. Non voglio verticalizzare la tua teoria, proprio perché è nella complessità dell’esperienza e della pratica che si è sempre mossa. Nel violento impatto del passato che percuote il presente. Ma la tua voce, soprattutto quella scritta, è verticale come un corpo.
Al telefono mi dicesti che eri davvero entusiasta di come così tanti e tante ‘giovani’ fossero ancora interessate agli anni Settanta. Quello che ti colpiva, non era tanto la fascinazione verso il passato, ma il movente di questa ricerca, nel quale leggevi una grande metafora umana: la necessità di una ‘ripresa’. Lì per lì non avevo afferrato esattamente cosa intendevi con ‘ripresa’, mi ricordo che gli avevi affiancato le parole ‘convalescenza’ e ‘archivio’. Allora, mentre continuavi a parlare al telefono, cercavo di immaginarmi da cosa potesse essere composto l’archivio di una convalescenza, la storia di una ripresa. Mi viene in mente ora che scrivo una delle ultime frasi di Mark Fisher «il passato non è «già successo». Il passato deve essere continuamente ri-raccontato, e l’obiettivo politico delle narrazioni reazionarie è sopprimere le possibilità che ancora attendono di realizzarsi, pronte per essere risvegliate, racchiuse nel passato»2. Credo che sia in parte questo che oggi ci spinge verso questa ripresa di cui ti stupivi molto, Lea. La costante necessità umana di aggrapparsi alla sensazione di riabilitazione da qualcosa di cui sentiamo gli strascichi. E scrutando tra i segni delle cicatrici, scoprire un prima e un dopo.
Solo mesi avanti, quando ci siamo rivisti a distanza, io a Londra tu a Milano, mi sono sentito di chiederti che cosa significasse per te “ripresa”, di cui mi avevi solo accennato al telefono. E in che modo, nel tempo, si è relazionata con il rimosso che hai analizzato prima nei movimenti non autoritari, e poi in quelli che Virginia Woolf definisce gli «oggetti seppelliti dalla storia» – come hai voluto ricordarci durante quella bellissima conferenza3 – e che tu stessa hai fatto diventare i tesori della tua pratica. Forse partirei da qui. Perché, alla fine, questa più che un’intervista è una conversazione per frammenti, che si muove tra me – e la necessità di comprendere le radici della tua scrittura – e te, che mi hai sempre risposto raccontandomi le esperienze di una vita, più che le teorie. Per cui da ora in avanti riporterò quello che ci siamo dette in maniera volontariamente disordinata, sperando che questo muoversi indisciplinato restituisca l’importanza che tu hai sempre dato alla collezione di quei frammenti.

Leonardo Bentini: Che cosa significa per te “ripresa”?
Lea Melandri: Devo precisare che questo concetto l’ho preso in prestito da Elvio Fachinelli. Io ed Elvio ci siamo conosciuti tra il ’69 e il ’70, e tra noi è nata una relazione – non solo intellettuale, ma anche sentimentale, un rapporto d’amore senza convivenza. Più tardi insieme abbiamo fondato la rivista L’erba voglio. Ricordo che nel ’74 ho insistito perché raccogliesse i suoi articoli più significativi, quelli pubblicati nella rivista Quaderni Piacentini del ’68: testi fondamentali per comprendere quel periodo. In questi scritti – insieme a tre articoli usciti su L’erba voglio, poi confluiti ne Il bambino dalle uova d’oro (1974) – emergeva il concetto di ‘ripresa’. La sua domanda era: come mai, in un momento dominato dalla logica del desiderio e dell’accomunamento, si è tornati a dinamiche di divisione? La risposta stava nel fatto che, pur criticando il potere, ne interiorizzavamo le logiche. Occorreva riaprire domande rimaste in sospeso. Riprendendo Sigmund Freud e la “coazione a ripetere”, Fachinelli rifletteva su come tornare sul passato, non sempre è sinonimo di regressione. Anzi, in quel ritorno – se cambiano le condizioni esterne – può nascondersi una ‘ripresa’. La possibilità di sbloccare qualcosa che si era cristallizzato. È un paradosso quanto tendiamo a ripetere schemi in contesti diversi, e come questo meccanismo può diventare l’occasione per rispondere a domande antiche in modo diverso. Per me questa lettura è diventata anche la lente attraverso cui ho interpretato il femminismo. Negli anni Settanta erano emerse esigenze radicali, e proprio perché radicali, quelle domande, tornano sempre. La ripresa non è nostalgia: è un movimento che vale per la vita personale, per i movimenti, per la storia. È la possibilità di riannodare fili spezzati.

LB: Come qualcosa che è rimasto sepolto e che oggi chiede di essere ripensato, riaperto. Domande lasciate in sospeso che necessitano una risposta. Elvio Fachinelli in Il Deserto e Le Fortezze (parte terza) scrive:

Coloro che si uniscono a formare una comune, un gruppo di liberazione, hanno in sé, come profonda ferita personale, la crisi dell’istituzione che vogliono sostituire o dei rapporti che intendono ricreare. La profondità di questa crisi è direttamente proporzionale all’intensità del desiderio di mutamento. Si profila a questo punto tutta la difficoltà e l’ambiguità della ripetizione. Aperta verso l’avanti: e allora prende corpo l’immagine trascinante di rapporti realmente innovativi, e insieme di un nuovo sapere dei rapporti, un sapere comune che è il superamento reale dei saperi istituiti e divisi che conosciamo.

Questa idea della ripresa, di ripetizione, mi ha colpito perché unisce l’approccio psicoanalitico alla militanza concreta, scivolando più nel personale che nella teoria. Mi ha fatto sorridere molto quando durante la conferenza presso l’Istituto di Cultura Italiana di Londra hai parlato, a proposito dello slogan femminista “il personale è politico”, di come questo fosse strettamente riferito al concetto di ‘condurre fuori’ il personale per abolire quei dualismi – quella divisione artificiale tra “persona” e “cittadino”, e su come la persona sia invece una totalità – che avevano condizionato il femminismo fino ad allora. Uscire da quei ‘dualismi ereditati’, come li hai definiti, significava mettersi alla ricerca di legami e riappropriarsi di un linguaggio che era stato dichiarato “inaccettabile” e ristrutturare pratiche comunicative. Quali pensi siano stati i passaggi fondamentali di questo processo che tutt’ora è in corso? E in che modo secondo te le “amputazioni” di una politica parzialmente liberatrice hanno contribuito a formare clandestinamente in quegli anni gruppi di liberazione, comuni e pratiche sovversive di riappropriazione del sé, e di tutto il resto?
LM: Questo è un altro punto fondamentale del pensiero e della pratica di Elvio Fachinelli – che non sono mai stati separati – l’uscita dai ‘dualismi’: infanzia-storia, biologia-storia, individuo-società. Uscire dai dualismi significa cercare i nessi, i legami che sono sempre esistiti. L’approccio psicoanalitico si collega ovviamente al concetto di ripresa di cui parlavamo prima. Veniva allo scoperto l’impresentabile, la separazione tra corpo e polis, riemergeva l’indicibile, e tutte le esperienze considerate non politiche. Non si può scavare così a fondo in quella “materia segreta” – come la chiamava Rossana Rossanda – senza affrontare questa sfida. Rileggendo le nostre lettere [con Rossana Rossanda; N.d.A] e i suoi articoli, ho ritrovato la sua intuizione sulla sfida del femminismo: spingere la politica in quella materia segreta tra inconscio e coscienza, in quelle “lande deserte” che lei, donna di storia e di alta politica, temeva potessero farci affondare, perdendo il legame con la realtà sociale. Lei aveva fretta, mentre noi avevamo tempi lunghissimi. Fachinelli aveva capito che, con il cambiamento in atto, non si poteva più parlare di politica in termini tradizionali: il privato e il pubblico si mescolavano, l’inconscio era nell’aria, era “fuori”, davanti agli occhi.
Anche nel femminismo italiano, dove inizialmente si era praticata l’autocoscienza come esplorazione dell’inconscio, si è smesso di parlare del corpo e della vita psichica per concentrarsi sul ‘simbolico’, definito attraverso negazioni: non è corpo, non è vita psichica, non è vita materiale. In questo modo, però, si è riprodotta la stessa logica maschile: gli uomini hanno costruito il simbolico rimuovendo il femminile, associandolo alla materia e al corpo. Il problema del dualismo riguarda la falsa complementarietà tra corpo e pensiero, maschile e femminile – parti inscindibili dell’umano che invece sono state separate e gerarchizzate. Questa divisione fonda la civiltà così come la conosciamo, generando sia rapporti di potere, sia il sogno di riunificazione (l’amore romantico ne è solo un esempio).

LB:È interessante come hai sempre raccontato la tua vita e la tua pratica attraverso la metafora del “fuori tema”, dove tutto quello che non era accettato dalle istituzioni di competenza, tutto l’incompreso, diventava il centro di un antagonismo attivo; ancora il personale che faceva irruzione nel politico e nel sociale, verso l’esperienza. Nella prefazione dell’antologia Il Desiderio Dissidente4 hai scritto:

Aspetti «oscuri» dell’esperienza, destinati a essere «scartati» e tenuti in aree separate, lontano dal funzionamento della macchina produttiva, sono divenuti sempre più materia di attualità, alimento per la fame dei media, ma anche contraddizione vistosa di una società costretta a nominare l’«innominabile», mai del tutto cancellato, dalla sua «preistoria». Il rapporto tra i sessi, la sessualità infantile, la violenza familiare, la vecchiaia, la malattia, la morte, «momenti del vivere che non sono il lavoro», appaiono oggi materia tanto più invasiva e indifferente al tradizionale «impegno politico», quanto meno si è cercato di descriverli, analizzarli, modificarli.

Come dimostra il lavoro con le 150 ore, per esempio, che non si trattava semplicemente di una “pratica educativa”, ma esperienziale; quel “fuori” non era più solo metaforico, ma lo spazio concreto di una teoria organica. In questa pedagogia, che non si è fermata alla trasmissione dei saperi, ma che ha accompagnato sempre verso il “fuori”, dove pendeva la bilancia? Come hai gestito il portare fuori (le idee, il corpo, il desiderio) e il riportare dentro (le esperienze, le lotte, le relazioni) tutto questo?

LM: In realtà ho usato poco la parola pedagogia. Già negli anni Settanta avevamo una giusta diffidenza verso certi approcci istituzionali. Ricordo bene quando nel 1973-74 si costituì la facoltà di Psicologia a Padova. Organizzammo un importante convegno per l’occasione, c’erano nomi come Giovanni Jervis e altri psichiatri rilevanti dell’epoca. Gli atti furono pubblicati in un volume della Feltrinelli che casualmente ho ritrovato di recente. Il nostro timore, espresso in quel convegno, era la psicologizzazione della società – un problema attualissimo oggi, dove il disagio giovanile viene sempre più medicalizzato. In futuro, nelle scuole non entrerà l’educazione di genere, ma gli psicologi. Tutto il complesso tema del corpo e delle relazioni verrà affidato agli “specialisti”. La stessa pedagogia di allora aveva questo carattere specialistico che le nostre pratiche antiautoritarie cercavano di scardinare. Fu Elvio Fachinelli a darmi una lezione fondamentale mentre preparavamo il convegno sulla scuola non autoritaria, da cui poi nacque L’erba voglio. Io, allora insegnante in una scuola media a Melegnano dove avevo abolito voti e bocciature, volevo fare un intervento “colto”. Lui mi disse: «Non importa quanti libri di pedagogia hai letto, racconta la tua esperienza». Così nacque il mio primo scritto pubblico, con un titolo orribile ma significativo: L’esperienza di due anni di insegnamento non autoritario nella scuola di Melegnano. Questa valorizzazione dell’esperienza diretta rappresentava quella che chiamavamo la “scandalosa inversione tra vita e cultura”. Ci interessava ciò che passava sotto i banchi, quella vitalità che i professori chiamavano “distrazione” ma che in realtà era attenzione autentica.

LB: Questa storia, e le condizioni nelle quali è nata L’erba voglio, mi portano inevitabilmente verso le condizioni dell’editoria oggi e mi chiedo: che cosa è rimasto oggi di quell’approccio? In che forme l’editoria può ancora attingere a quei processi radicali, a quelle modalità di comunicazione?
LM: La mia esperienza editoriale è stata particolare. Ho pubblicato una decina di libri, ognuno con una sua storia interessante. Ma la vera passione sono state le riviste – i Quaderni Piacentini, Alphabeta, Linus e naturalmente L’erba voglio. Gli anni in cui le riviste erano luoghi vivi di elaborazione politica… devo dire che mi sono divertita più con le riviste che con i libri. Ho avuto due case-rivista, sempre in affitto: piccoli appartamenti di quaranta, cinquanta metri quadri trasformati in redazioni. Il primo era la sede de L’erba voglio a Milano, via Eustachi 35. Immagina riunioni di quaranta persone in quello stanzino, con le finestre aperte per il fumo… Poi c’è stato l’appartamento dove ho fatto Lapis per dieci anni – ultimo piano, vista sui tetti, il mio bel balcone fiorito che fotografo in tutte le stagioni. Con L’erba voglio abbiamo pubblicato anche libri, non solo la rivista. Il mio L’infamia originaria fu tradotto in francese e spagnolo, poi c’era La Traviata Norma ovvero: vaffanculo…ebbene sì! A cura dei collettivi omosessuali milanesi (il FUORI)… Ma non ebbe grande seguito. Era il tentativo di unire riviste, libri e pratica politica in quel grande orizzonte rivoluzionario degli anni Settanta. Poi negli anni Ottanta tutto cambia. I movimenti entrano nelle università e io vedo succedere al femminismo quello che capita a tutti: quando vai in cattedra, perdi l’originalità della pratica politica. Il ‘rigore scientifico’ elimina la sfera personale – proprio quella che per noi era stata rivoluzionaria col partire da sé e l’autocoscienza. L’editoria ha seguito questa deriva. Tanti buoni libri, ma sono opere di ricerca, non di pratica. Manca – e qui torno al mio chiodo fisso – un’altra lingua. Dobbiamo inventare un linguaggio che tenga insieme lo sguardo all’infanzia, alla memoria del corpo e ai codici sociali. Nei laboratori lavoro proprio su questo: non solo a far emergere l’indicibile delle nostre vite, ma a chiedersi “con che lingua lo esprimiamo?”. Venti persone leggono lo stesso materiale e dieci scelgono lo stesso frammento: è un tema chiave. Ma a me interessa come ne parlano – in forma letteraria, filosofica, diaristica… I cento ordini del discorso sono quelli da aggredire radicalmente, da scardinare partendo da quel sé che trattiene tanta cultura sommersa. È questa la sfida.

LB: A Londra hai raccontato di come, durante l’esperienza delle 150 ore, hai iniziato a capire piano piano, che il gruppo di partecipanti sembravano raccontare una parte di te, che tu non eri mai riuscita a raccontare.
Hai sempre parlato di come quell’esperienza era un salto temporale nella tua infanzia; nella campagna romagnola dalla quale eri fuggita e di come, attraverso la condivisione di quel corpo collettivo, stavi ricucendo una ferita.
Questa scrittura di cui parli, la ricerca di una nuova lingua, non è forse proprio questo? Riprendere la parola, rubarla all’accademia, alle istituzioni, e restituirla a quel “fuori tema”. Perché è lì, nel contatto con le ferite che ci portiamo dietro e che non abbiamo mai saputo nominare, che la scrittura esiste.
LM: Per me all’origine ci sono quei vent’anni che sono stata in quella famiglia, che hanno creato una ferita profonda. E poi la povertà, la miseria, la violenza. Solo macerie. Non ho ricordi. Ho fatto una lunga analisi di otto anni, ma non mi venivano ricordi. Il “fuori tema” di cui parlavi, avvenne quando durante un tema del ginnasio su “novembre” invece di fare un’esercitazione letteraria, raccontai della mia famiglia, della violenza, della povertà. La professoressa mi diede un brutto voto e mi disse «scritto benissimo ma fuori tema». Io allora lasciai la scuola per quattro mesi, poi lei si ammalò e decisi di tornare. Ma il fuori tema è stato da lì in poi il filo conduttore di tutta la mia storia. Poi nel femminismo ho visto aprirsi finalmente la possibilità di un sentiero che mi poteva portare, con la memoria, a queste ferite del mio passato. La possibilità di leggerle con un occhio diverso, non come un dolore privato, come una sofferenza privata, ma come una storia, una condizione sociale. E quindi sì, incontrare le donne delle 150 ore, è stato come rincontrare le donne della mia famiglia, del mio paese e avere una lingua comune attraverso la quale potevamo capirci.

LB: Per concludere vorrei riprendere l’immagine del frammento. Scrivere per frammenti significa riconoscere che siamo fatti di più voci, che siamo un corpo plurale e collettivo, che deve imparare a recuperare/riprendere la ferita farne una narrazione della convalescenza. Quindi per riprendere la parola ‘convalescenza’ che erroneamente ho utilizzato all’inizio di questa conversazione, ma che ora sembra essere in parte tornata; Forse la scrittura, specialmente la tua, è una pratica di cura, uno stadio di convalescenza?
LM: Non c’è dubbio. Per me lo è stato, ma da subito, dalle elementari. Il momento della scrittura per me è un ponte per uscire da quel confinamento doloroso in quella famiglia. È sempre rimasto così.

Non posso perciò non invidiare chi ha saputo, in mezzo a studi e a occupazioni colte, aprire uno spazio ai suoi occhi di bambino, incantati dal sonno della campagna in un pomeriggio estivo, e restituire alle pagine scritte l’odore di terra e di erba tagliata dopo un temporale. Nelle immagini di un tempo presente che ha visto avanzare un unico interminabile deserto dalla pianura fino alle strade di grandi città riconosco una condizione comune di smarrimento e di solitudine, gli stessi effetti di un mondo spettrale che sembra emergere e scomparire ogni volta dentro una parete di nebbia. Ma, se un «Paradiso», evocato dalla memoria, viene a scuotere un paesaggio spento e a ripopolare strade e cortili dove nessuno dà più una voce a nessuno, ci si può illudere di aver ritardato la morte e di poter portare in salvo, «oltre la notte», una piccola «brace» calda e luminosa5.

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Leonardo Bentini