UN SESSANTOTTO DURATO UN DECENNIO di

di 30 Maggio 2025

Il seguente testo è estratto dalla pubblicazione The Unexpected Subject. 1978 Art and Feminism in Italy, pubblicato da Flash Art in occasione dell’omonima mostra tenutasi presso FM Centre for Contemporary Art a Milano tra Aprile e Maggio 2019 a cura di Marco Scotini e Raffaella Perna.

L’erba voglio n.1, Courtesy Archivio Primo Moroni, Milano

Quando sono arrivata a Milano nel novembre 1966, all’improvviso due famiglie – quella d’origine e quella in cui ero entrata da pochi mesi per un matrimonio infelice –, e il liceo scientifico dove avevo appena preso servizio come insegnante di ruolo. Avevo 25 anni, venivo da un paese di provincia, in Romagna, cresciuta in una famiglia molto povera di contadini mezzadri – tre nuclei famigliari in una cascina di poche stanze –, ma figlia unica che aveva avuto il privilegio di studiare.
La fuga, benché meditata a lungo, è avvenuta con uno strappo improvviso quando mi è sembrato che la mia vita fosse ormai definita una volta per sempre: la laurea, il matrimonio, un lavoro sicuro. Un orizzonte di sogni, attese, che si eclissava.
Il treno per Milano significava la libertà, l’uscita dal tempo sempre uguale della campagna, la possibilità di una nuova nascita. Ho scoperto più tardi che a fare quel passaggio, alla fine degli anni ‘60, erano stati molti giovani, maschi e femmine.
“La città rende liberi” è un pensiero che non mi ha mai abbandonato. Quando torno, dopo un viaggio, è sempre come se mi lasciassi alle spalle una stazione di provincia.
Il primo anno non è stato facile: senza lavoro, senza fissa dimora, ho dormito qualche volta qui in stazione, sulle panchine, ospite di una coppia di compaesani, in pensioni di basso costo. Ma, insieme a paure e angosce, c’era l’euforia di un nuovo inizio e la sicurezza che in una città così grande nessuno avrebbe potuto trovarmi e riportarmi a casa. Ho amato Milano per le sue strade, i suoi tram, i suoi bar, le sue cabine telefoniche, i suoi parchi. L’anonimato mi faceva, paradossalmente, sentire protetta.
La svolta che avrebbe cambiato profondamente e durevolmente la mia vita è venuta poco dopo, verso la fine del ‘68, quando ho ottenuto il trasferimento nella scuola media di Melegnano e ho cominciato ad accostarmi con interesse alle assemblee del movimento non autoritario degli insegnanti. La politica passava finalmente vicina alle mie esigenze più intime: i vissuti più significativi e dolorosi, legati alla condizione sociale, all’essere femmina, alla sessualità, agli affetti famigliari, rimasti il “fuori tema” per tutto il mio percorso scolastico, diventavano il tema.
Nella primavera del ‘70 ho conosciuto lo psicanalista Elvio Fachinelli, di cui avevo letto le interessanti analisi sul ‘68, sulla dissidenza giovanile, sulla necessità di portare l’interrogazione analitica fuori dal rapporto duale, nei luoghi dove stavano avvenendo grandi cambiamenti sociali: Il desiderio dissidente (febbraio ‘68), Gruppo chiuso o gruppo aperto? (novembre ‘68). Fachinelli aveva appena dato vita, insieme ai promotori di un contro corso di pedagogia all’Università statale di Milano, a un “asilo autogestito” in corso di Porta Ticinese, n.86 e stava preparando, con insegnanti, studenti, psicologi, operatori sociali un convegno sulla pratica non autoritaria nella scuola. Il convegno si tenne all’Umanitaria nel giugno 1970 e poi in settembre dello stesso anno. Le relazioni, più altri scritti di studenti e insegnanti, furono raccolte nel libro L’erba voglio, pubblicato da Einaudi nel ‘71. A seguito del grande successo – cinque edizioni in pochi mesi, tremila cartoline che ci chiedevano collegamenti – decidemmo di creare una rivista omonima, con l’idea di estendere la pratica non autoritaria ad altre aree sociali. Ne usciranno 28 numeri, dal ‘71 al ‘77, e, a seguire, una collana di libri, edizioni Erba Voglio.
L’ambizione della rivista era di raccogliere materiali da singoli e gruppi esistenti in varie città, “tenere voci diverse in un insieme comune”, attenersi alla logica del desiderio e dell’accomunamento. Si può dire che la rivista L’erba voglio, di cui sono stata redattrice fino al 1976, e il movimento delle donne che ho incontrato sempre nel ‘71, hanno rappresentato un prolungamento del ‘68, dei suoi temi, delle sue radicali pratiche politiche.
Purtroppo, di quel decennio, si ricordano quasi solo la guerriglia urbana, il terrorismo, il riflusso prodotto dalla lotta armata.
A metà degli anni Settanta, quando ho chiesto il trasferimento dalla scuola media di Melegnano ai “corsi 150 ore” per adulti ­– grande conquista delle lotte operaie per chi non aveva la licenza media – ero nel pieno del mio coinvolgimento femminista, profondamente convinta che la relazione uomo-donna fosse una questione centrale per ripensare la politica e le sue istituzioni, ma anche la storia, la cultura, i saperi e i linguaggi disciplinari, e decisa a portare nel mio ruolo di insegnante le consapevolezze nuove che mi venivano dal movimento delle donne. Sapevo che avrei trovato meno burocrazia e meno vincoli riguardo ai programmi, per cui mi sarebbe stato più facile introdurre nelle mie lezioni le tematiche che mi stavano a cuore e che erano sempre rimaste fuori dalla scuola. Nonostante sapessi che si trattava di una scuola prevalentemente operaia, il desiderio era di trovarvi presenze femminili. Nominata molto tardi, ai primi di dicembre 1976, mi presentai alla scuola media di via Gabbro 6, in zona Affori-Bovisasca, senza illusioni e la mia grande sorpresa fu quando, aperta la porta, mi trovai di fronte a una trentina di donne, più qualche uomo. L’emozione fu tale che mi sedetti sulla prima sedia vuota, tanto che la mia vicina, prendendomi per una corsista, mi rassicurò dicendo che c’era stata una supplente e che “non avevano fatto ancora niente”. È cominciato così un’altra di quelle svolte che avrebbero segnato durevolmente – potrei dire fino ad oggi – la mia vita, i miei interessi, la mie scelte.
Le trenta ‘allieve’, non più giovani, erano quasi tutte casalinghe e avevano dovuto faticare non poco a farsi aprire un “modulo” nella loro zona. I sindacalisti, fermi all’idea di una scuola operaia, non capivano perché donne che erano state fino ad allora mogli e madri, impegnate nella cura della famiglia, volessero tornare a scuola, prendere una licenza media che non avrebbero probabilmente usato. Non appena abbiamo cominciato ad affrontare i temi che le rendevano più consapevoli di quella che era stata fino a quel momento la loro vita, è stato come se si fosse spalancata una porta, varcata la quale – come disse una di loro – non sarebbe stato più possibile tornare indietro. La felicità delle scoperte che venivano facendo si è espressa da subito con manifesti, volantini, dispense che preparavamo col ciclostile, i cui titoli erano già rivelatori del cambiamento che era avvenuto in loro e che avrebbe contagiato in breve tempo altre donne, altri quartieri di Milano. Ne ricordo alcuni: Più polvere in casa meno polvere nel cervello (nel disegno del manifesto una donnina che si spolverava la testa), L’uovo terremotato (un grande uovo spalancato da cui uscivano file di donne), È sparita la donna pallida e tutta casalinga, Acrobate, La Traversata.
Il corso di via Gabbro è diventato, fin dal 1976, un esempio e le donne che lo hanno frequentato si può dire che sono state delle ‘pioniere’ dimostrando le potenzialità che hanno la scuola e la cultura di modificare i ruoli tradizionali della donna. L’esperienza di Affori ha attirato subito l’attenzione dei giornali e della televisione, tanto che si è pensato, con un’amica regista, di darne noi stesse notizia in modo più creativo.
Il film-documentario di Adriana Monti, Scuola senza fine, in cui sono ricostruite le storie di alcune corsiste e l’incontro con me, sarà proiettato alla New York University in occasione di un convegno su “Donne e cinema in Italia” (1985). Molto apprezzato dalle femministe americane fu poi riportato quasi per intero nel libro Off Screen, stampato a New York e Londra.
Per le corsiste era la riscoperta di una vita trascorsa all’interno della famiglia alla luce di una consapevolezza nuova. I loro scritti, nati spontaneamente sotto la spinta del desiderio di raccontarsi con una libertà fino allora sconosciuta, non avevano niente di retorico, di scolastico, andavano dritti alla verità che affiorava man mano dal pensare e confrontarsi con altre. Per me era, ancora una volta, ritrovare figure del mio passato, donne che somigliavano a quelle della mia famiglia, del mio paese; ricucire in qualche modo lo strappo che si era prodotto fra me e loro dal momento che io avevo potuto studiare, avere finalmente una lingua comune con cui parlarci, riflettere sulle nostre diverse esperienze.
Ricordo in particolare Amalia Molinelli, contadina emiliana che, migrata con la famiglia in città, aveva fatto i mestieri più duri coltivando in modo silenzioso e solitario pensieri profondi, che trovarono immediatamente espressione nella scrittura. Era una lingua molto creativa, una commistione di dialetto e italiano, che entrava senza soggezione nei saperi specialistici – la matematica, la filosofica, la fisica – scombinandoli, costringendoli a confrontarsi con la vita personale, con la quotidianità, con il diverso destino toccato al maschio e alla femmina. Ne uscirà, anni dopo, un libro: I pensieri vagabondi di Amalia. Finito il corso che avrebbe dato loro la licenza media, nel giugno 1976, come era prevedibile, le donne che l’avevano frequentato con tanto entusiasmo non vollero più rientrare a casa. Cosi dovetti inventarmi “corsi monografici” – inizialmente senza alcun riconoscimento istituzionale –, “bienni sperimentali”, usando aule messe a disposizione dalla scuola e invitando a tenere corsi, gruppi, lezioni, le amiche femministe che avevano saperi e pratiche da trasmettere. Per la maggior parte venivano dal gruppo, nato nel 1977 nella sede di Col di Lana, “sessualità e scrittura”.
Nel 1980, con un finanziamento europeo, nascerà in un locale del quartiere Bovisasca, la Cooperativa Gervasia Broxon. Il nome era inventato ma nessuno ha mai chiesto chi fosse. Le partecipanti erano le stesse che avevano aperto il corso nel 1976, più altre che si erano via via aggiunte. Il fine della cooperativa era di prepararle a diventare delle grafiche, ma dietro c’era l’idea di interrogare i saperi disciplinari e il lavoro alla luce di una cultura che aveva escluso le donne, considerandole custodi “naturali” della famiglia. Altrettanto importante era l’analisi dei rapporti che si venivano creando tra di noi, insegnanti e allieve, l’occasione che avevamo di ripensare la nostra formazione scolastica alla luce delle esperienze di vita che ne erano rimaste fuori.
Negli anni della “Milano da bere”, della “voglia di vincere”, che contagiò anche una parte del femminismo – in particolare la Libreria delle donne – la “scuola senza fine di Affori” per la complessità dei problemi che aveva scelto di affrontare, non poteva avere la risonanza che meritava, ma fu comunque un laboratorio unico e originale nel tentativo di mettere a confronto intellettuali e donne comuni. Le teorie elaborate dai gruppi femministi erano costrette ad esporsi agli interrogativi che venivano ancora una volta dalle vite concrete, oltre che a confrontarsi con discipline e linguaggi specialistici tradizionalmente ‘neutri’.
Nel quartiere di Affori Bovisasca ho trascorso, dal 1976 al 1986, quando si chiuderà la Cooperativa, i dieci anni più intensi del mio insegnamento e del mio impegno femminista. Pur senza vivere nel quartiere, trascorrevo lì la maggior parte del mio tempo, come se stessi effettivamente dando corpo a un altro ‘paese’, simile per tanti aspetti a quello che avevo lasciato in Romagna. In particolare, penso all’occasione che ho avuto di condividere con le mie corsiste e corsisti la passione per il ballo liscio.

 

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Lea Melandri