“Light Lights” è la prima mostra di Davide Stucchi in un’istituzione italiana. È una mostra intima e, come ogni cosa intima, complessa. È una mostra di luci e di spazi, di assenze e di relazioni. È una mostra buia di cavi che corrono e lampade che si arrampicano, di sedie che si raccolgono e led che si nascondono. È una mostra, soprattutto, sui significati e sui significanti, su ciò che è significativo e su ciò che non lo è.
Stucchi (il destino nei nomi: il feticcio edile già nell’impasto del cognome) saccheggia i ferramenta per disinnescare le convenzioni semantiche dello spazio espositivo. La sala del museo è disegnata per indirizzare lo sguardo verso le opere e far dimenticare tutto il resto: è un catalizzatore e selezionatore di attenzioni pensato come una costruzione non significativa in cui esaltare oggetti significativi. Stucchi rompe questo patto. L’impianto d’illuminazione del museo, invisibile e ben distribuito, resta spento: con una mossa brechtiana, le opere si illuminano da sole, a vicenda. Gli interruttori e la segnaletica rinunciano a ogni mimetismo: alle opere piace mescolarsi tra loro. Gli imballi non vanno smaltiti o riposti nei magazzini: i led timidoni vogliono continuare a giacere nascosti nel pluriball che li ha avvolti. I cavi non hanno bisogno di incastrarsi sotto una canalina: è nell’inciampo dei significati che la mostra si accende. Spogliare il museo non è un’operazione neutra: a Stucchi serve «per capire se è invisibile davvero».
Subito all’inizio della mostra, una ridda di dispositivi e segnali antincendio innesca l’equivoco: sono fatti per essere visti o devono restare invisibili? Lì accanto, alcune lampade da esterno non accolgono lampadine, ma perle di plastica (Neck-Laced, 2025). A sinistra, una scala dimenticata da un installatore abbraccia uno specchio: ora serve a vedere il sole (Rising, falling, looking for the sun, 2025) – in fondo, uno scaleo più basso, da lavoro domestico, permetterà infine di specchiarsi davvero (Rising, falling, looking for the moon, 2025). Ovunque, anche in basso e negli angoli, gli interruttori non accendono o spengono, ma riflettono o incorniciano (Light Switch, 2024-2025). Un filo di lucette di Natale è stato lasciato, ancora arrotolato, sopra due porte inutilizzabili: servirà da nido intermittente a un uccellino elettrico (The nest rests on top of all quests, 2025). A terra, i cavi di alimentazione delle opere hanno deciso di farsi decoro: ostentano fieri le loro curve. Ispirato, un elettricista ne ha raccolti e ordinati degli altri: sognava di fabbricarsi un tappeto (Electrician’s Carpet, 2025). Lungo le pareti, gli scheletri nudi dei paralumi hanno rinunciato alla loro funzione per raccontare soltanto la loro struttura (Lamp Shades, 2023-2025).
“Light Lights” è una mostra di immaginari domestici, piccolo borghesi, familiari. Stucchi insiste sulle risonanze generazionali degli oggetti che ha raccolto. C’è un trapasso emotivo nella sedia thonet sfondata che potrebbe appartenere alla casa dei nonni o dei genitori: antifunzionale, non-significante e per questo ancora più struggente (You talk, I listen, 2025). La casa-mostra diventa così uno spazio di relazioni: quelle tra gli oggetti, quelle tra le generazioni e quelle tra gli amanti, ormai assenti. Due Eclisse di Vico Magistretti si sono arrampicate sulla parete e poi si sono voltate l’una verso l’altra. Mentre si guardavano, qualcuno ha portato via prima i comodini e poi il letto e le lampade sono rimaste lì, appese a far brillare la loro lucetta rossa – vezzo custom. Alla loro sinistra, un materasso si è steso davanti a una finestra, schermata da veneziane inadatte sia a una camera da letto, sia a un museo. Una decina di abatjours avvolti in foulard rossi combatte su quell’arena-materasso (16/01/22, Ring, 2022-2025). Quest’altro intervento a luci rosse, forse un’insurrezione degli stessi abatjour, è purtroppo fallito: i cavi hanno consumato tutta la loro lunghezza nel legare i fazzoletti alle lampade è adesso non c’è modo di collegarle all’alimentazione. Nella tensione irrisolta di quella resistenza si sublima un azzardo erotico: non c’è più nessuna luce da abbattere.
Questa gang di oggetti luminosi capace di destabilizzare le nozioni più basilari del display, delle categorie artistiche, dell’affettività, delle funzioni, del desiderio e della sicurezza mi fa ripensare sorniona al feticismo analogico di certi objets surréalistes, al Félix González-Torres dei Light Strings, magari a Lusterie Média di Guillaume Bijl, ma soprattutto, più indirettamente, alla Nanda Vigo dei Light Projects: «Oggetti luminosi, scontati ed evidenti che, per eccesso di semplicità, convincono l’osservatore a individuarvi un assurdo imprevedibile», scriveva Agnetti nel Settantuno. Scatta, in quell’«assurdo imprevedibile», il significato nascosto, il lato buio del significante: che il diametro di un tubo neon circolare, uno di quelli da appendere in bagno o inserire in un Flavin dei primi Settanta, coincida con quello della seduta di paglia di cinque vecchie thonet rosse (Daring Chat, Fearless Speech, Impulsive Talk, Bold Conversation, Imprudent Gossip, 2025) è un piccolo miracolo casalingo che può servire a illuminare una relazione o uno spazio espositivo.