Alessandro Rabottini disarticola la grammatica espositiva della fotografia, come la pensiamo. Nessuna sequenza narrativa, nessuna serie tematica, nessuna progressione cronologica.
La linearità documentale viene sostituita da un campo di relazioni aperto, non gerarchico.
Non categorizza, non codifica, non espone per affermare. Compie un’operazione più sottile e ambiziosa: apre uno spazio semantizzante in cui le opere di Guido Guidi non si chiudono su sé stesse, ma si offrono come interrogazioni. Evita di far ricadere l’autore nel “fotografo di paesaggio” o “documentarista del reale”. Lo libera. Guido Guidi è un grande artista. E con lui, libera lo sguardo dello spettatore.
“Nulla era insignificante; tutto meritava attenzione.
Più ci si allontana dal centro, meno si sente il potere.
Mi sembrava di avere più libertà lavorando ai margini”.
— Guido Guidi
Un invito a guardare dove nessuno guarda, a celebrare la sottrazione, il margine, l’invisibile. Un’estetica della rarefazione che non si impone, ma agisce. Le immagini si dispongono nello spazio di 10 Corso Como come pensieri in una mente che rallenta: un muro scrostato, un angolo di cemento, la luce che filtra su superfici dimenticate. Opere che respirano nel silenzio, che chiedono tempo.
Anche Wolfgang Tillmans, in una linea concettuale affine, osserva: “Quello che mi interessa è l’idea dell’immagine come qualcosa che accade nella mente dello spettatore, non sulla carta”.
Qui il fenomeno nasce dentro di noi. Non nell’effetto, ma nel dipanarsi dello sguardo. Lo spazio stesso si trasforma in presenza mentale: non solo galleria, ma teatro di una visione, luogo dove l’ordinario si fa straordinario attraverso la semplice insistenza dell’attenzione.
Questa mostra non dice cosa pensare. Ma dimostra che si può ancora pensare guardando.
È un atto curatoriale che rifiuta la retorica dell’ordine, scegliendo il ritmo rarefatto, la pausa, l’ascolto. Non costruisce un racconto, ma un campo di risonanze. Attraverso questa operazione leggiamo anche la pratica di Rabottini: non spettacolare, ma radicalmente autoriale. In un tempo in cui il ruolo del curatore è spesso ridotto a confezionatore, qui l’autorialità è assunta come spazio di responsabilità. La sua curatela non è estetica dell’ordine, ma etica della visione.
Rabottini mi ricorda Viaggio in Italia, ideato da Luigi Ghirri e pubblicato per la prima e unica volta nel 1984, un caposaldo della fotografia contemporanea. Le idee che lo guidarono sono oggi considerate il manifesto della cosiddetta Scuola italiana di paesaggio: un modo nuovo di guardare il territorio, fatto di sobrietà, senso critico, attenzione al quotidiano e alla periferia.
In quelle pagine, Guido Guidi viene definito “uno degli autori più personali e complessi dell’attuale fotografia italiana”, già capace di un’indagine sottilmente poetica del paesaggio. La ristampa anastatica curata da Quodlibet nel 2024 ha riportato alla luce la forza teorica e visiva di quel progetto, offrendo una nuova lettura critica a generazioni che oggi ne comprendono pienamente l’urgenza.
Quella voce laterale, quasi silenziosa, si è trasformata con il tempo in una delle più influenti della fotografia europea. Oggi Guidi rappresenta un punto di riferimento etico e visivo per molti artisti, anche non dichiaratamente fotografi. Non tanto per l’oggetto ritratto, quanto per la qualità dello sguardo, per la sua capacità di rendere straordinario ciò che è ordinario, di abitare il vuoto e farne spazio critico.
Da un’altra parte non è solo una mostra. È un’ipotesi sul presente della visione, un modo per ricordare che la fotografia, come l’arte, non deve confermare. Deve trasformare. E trasforma davvero: il nostro rapporto con la durata, con l’attenzione, con l’idea stessa che un’immagine possa ancora insegnarci qualcosa sul mondo. In un’epoca di sovraesposizione visiva, questa mostra propone l’antidoto della rarefazione. Non meno immagini, ma immagini diverse. Non più veloci, ma più profonde. Un atto di resistenza poetica che restituisce alla fotografia la capacità di generare spazio mentale e aprire varchi nel presente.