Giacomo Montanelli “Realista” Triangolo / Cremona di

di 12 Giugno 2025

“Realista”, prima mostra personale di Giacomo Montanelli da Triangolo, si compone di sei lavori.
Nell’introdurre l’esposizione, vorrei prendere le mosse da una primissima considerazione. Si potrebbe descrivere la pratica di Montanelli come una ricerca sull’esigenza della forma quale voce delle cose: un’indagine ostinata per franchezza e disillusione. Quella dell’artista costituisce una pittura essenziale, a tratti persino autoreferenziale. La quiete delle geometrie che essa pone in equilibrio, il loro rigore compositivo, la frontalità congenita, e non necessariamente prospettica, delle sue immagini, così come la pienezza delle campiture stese a tinta unita, possono indurre a scorgere in essa una pittura che si offre trasparente, senza mediazioni. Una pittura dell’ordine dell’istante. O ancora: una lingua aritmetica restia al sentimento. Eppure, infrangere quell’autoevidenza, quel darsi come totalità a cui i suoi lavori paiono tendere, conduce a scoprire al cuore di tale sistema cristallino una norma incongrua. Tale incrinatura invita a valutare la possibilità che la pittura di Montanelli possa trovare il proprio fondamento in una condizione di ambiguità prossima alla favola e al sogno, piuttosto che all’assioma.

Nella pratica dell’artista, infatti, cose, oggetti, figure, non smettono mai di essere forme, né rinuncerebbero a comportarsi come tali. In questa incongruenza, la quale disegna una sorta di movimento doppio, risiede forse il senso di una pittura che vuole dirsi realista. Come noto, l’aggettivo in questione afferisce a una categoria storico-artistica dal passato prossimo denso di cronologie, geografie, collisioni. Con il realismo ottocentesco di area europea, l’approccio di Montanelli condivide una eco non stilistica, quanto eventualmente di postura: una prossimità riferita alla prova di onestà, sempre fallibile, che l’artista deve allo spazio della rappresentazione. Tale desiderio realista, ed è questo un tema che credo decisivo, insorge nel processo di invenzione delle immagini di Montanelli. Esso si propaga in una ritmica di piani della visione intesa come riflesso di livelli di realtà possibili. Più se ne fa esperienza, in effetti, più le sue opere sembrano contenere una temporalità implosiva e un’immaginazione folle. Le sue composizioni, così limpide nel loro stato di quiete esteriore, sono vertigini, alle volte prismi. Specie, quando si accorda loro il tempo per essere viste.

Nell’osservarle, lo sguardo talvolta si inabissa, rivelando la profondità dell’immagine: ecco allora schiudersi in volo una marina, una distesa d’acqua che luccica al chiaro di luna, tra i caseggiati. Oppure, si assiste al profilarsi di un interno domestico, rischiarato dalla luce di una plafoniera, inabitato fuorché per una falena; o ancora, si diviene testimoni della solitudine troppo umana di un servomuto, interprete stanco di una notte qualsiasi. Mentre ciò accade e il pensiero precipita verso il fondale del quadro, le immagini di Montanelli compiono un piccolo balzo, quasi impercettibile. Risalendo in superficie, esse tornano a coincidere con un piano frontale privo di interruzioni: una narrazione di linee e colori, di consistenze e forme.
L’ipotesi di una veduta, per esempio, viene restituita dall’artista ricorrendo a una sintassi sostanziale, suggerita da quello che potremmo concepire come un genio dell’immagine, ovvero il fine e l’intuizione della medesima. Nel caso in esame, ciò si realizza per il tramite di una planarità vibrante, un accordo di campiture opache contrapposte ad altrettante lucenti, la cui densità produce quell’impressione di sfavillio interamente meta-pittorico che rimanda, tuttavia, a un’esperienza condivisa, quale il contemplare un paesaggio immerso nel buio.

Come accennavo, credo risieda in questo movimento insito al racconto dell’immagine il senso dell’essere realista di Montanelli: un realismo ispirato dal prodigio della rappresentazione. Incanto dell’affiorare e retrocedere della composizione, esso lascia trasparire quel frangente segreto in cui l’immagine, per dirla con un gioco di parole, immagina sé stessa. Nelle opere esposte, una simile oscillazione tra planarità e spazio non possiede una direzione predefinita. Taluni dei lavori di Montanelli esibiscono una sintesi straordinariamente placida, lo si è detto, generata dalla piena coincidenza tra visione e grammatica. Altre volte, invece, è la composizione a protendersi in qualità di superficie, magari inglobando nel piano la riproduzione di un dipinto colta nell’oscurità di uno specchio. Nel caso più ardito, tale meccanica della riemersione giunge a porre in fuori gioco il binomio, presunto, di figurazione e astrazione, inquadrando un cantico di forme almanaccate nella penombra, ma esibite come documento pittorico di giorno. Realista, dirà qualcuno!

Anche per queste ragioni, il senso delle opere di Montanelli si dimostra pienamente innervato negli strati del quadro. Non sussiste, nel suo lavoro, propensione al concettuale o al postmodernismo, bensì si attesta una genuina passione per le tante, trascurabili vicende che compongono la quotidianità. L’atmosfera notturna che avvolge numerosi suoi lavori, più che omaggiare il notturno come genere, rispecchia variabilmente una conseguenza, un pretesto o una condizione sentimentale dell’anzidetta fluttuazione narrativa.
Da ultimo, le sue immagini denotano una consonanza tra intercambiabilità del significante e inevitabilità della scelta. Attitudine, quest’ultima, resa evidente dalle figure che in esse si manifestano o intravedono, quali una bolla, due falene, un Manet. Tali apparizioni risultano più affini al campo dell’esorbitante che a quello del simbolo o dell’indizio. Un’eccedenza di realismo propria di figure che, pur vestendo una livrea mimetica, vivono soltanto in quella sintesi dei piani che le fissa, senza ombra, tra superficie e voragine.
Pittura ridotta all’osso: una scimmia attende sola con il suo anelito, alla soglia dell’immagine.

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Valentina Bartalesi