Tommaso Calabro è un gallerista atipico. Intellettuale, curioso, radicalmente libero, ha scelto di costruire un percorso indipendente, quasi romantico, fondato sulla ricerca, sul gesto curatoriale e sull’amore per quelle figure eccentriche e colte del Novecento che il sistema dell’arte ha troppo spesso dimenticato. Le sue gallerie – da Milano a Venezia, fino a New York – non sono semplici spazi espositivi, ma palcoscenici per nuove letture storiche, dove l’archivio incontra l’intuizione, e il tempo non è una linea ma un oceano in movimento. In questa conversazione, Calabro racconta il suo metodo, le sue scelte, le sue ossessioni. E rivendica il diritto di non seguire la corrente.
Cristiano Seganfreddo: Hai iniziato molto giovane, con esperienze significative all’estero come Nahmad Projects a Londra. Cosa ti ha spinto ad aprire una tua galleria a 27 anni? Quali urgenze, mancanze o desideri ti hanno mosso, e come hai immaginato il tuo ruolo dentro – o fuori – il sistema dell’arte italiano?
Tommaso Calabro: La mia prima esperienza all’estero è stata con Sotheby’s, dove lavoravo come coordinatore tra l’ufficio di Milano e quello di Londra per un progetto particolare: la vendita all’asta di una collezione italiana che però si sarebbe appunto venduta all’estero. È stata un’esperienza molto formativa perché in una casa d’asta, a differenza di una galleria, si possono osservare più quadri e conoscere più persone.
Proprio da Sotheby’s ho conosciuto la famiglia Nahmad che pochi mesi dopo mi ha chiesto di dirigere una nuova galleria che avevano intenzione di aprire: Nahmad Projects. A livello curatoriale è stato incredibile poter realizzare delle mostre con dei quadri museali e avere soprattutto una libertà creativa che altrove probabilmente non mi sarebbe stata concessa.
L’esperienza è stata così formativa che dopo pochi anni ho scelto di lasciare Londra e di tornare a Milano per aprire la mia galleria. Ho trovato un luogo architettonicamente molto presente, il piano nobile di Palazzo Marietti in Piazza San Sepolcro, che era opposto ad un’estetica white cube. Ho scelto di aprire a Milano perchè non c’erano altre gallerie, in quel momento, che avevano una programmazione simile a quella che avevo in mente, incentrata su artisti internazionali e soprattutto surrealisti. Spero che le mostre che ho finora realizzato abbiamo portato un valore aggiunto all’offerta espositiva delle gallerie milanesi.
CS: Fin da subito hai dato voce a figure eccentriche del Novecento: Leonor Fini, Stanislao Lepri, Fabrizio Clerici. Una genealogia colta, visionaria e in parte dimenticata. Cosa ti affascina di questi percorsi laterali e come li hai pensati in dialogo con il presente? Che tipo di lettura proponi rispetto alla narrazione dominante della modernità?
TC: La storia dell’arte per come oggi è intesa è stata sviluppata come un susseguirsi di processi di novità basati su sistemi valoriali legati a specifici momenti storici.
L’impressionismo ha preceduto il post-impressionismo che a sua volta ha lasciato spazio al dadaismo, al surrealismo e così via per tutto il Novecento. Una narrativa così strutturata rende la storia dell’arte più facilmente comprensibile, ma ha il grande limite di non poter sempre spiegare le figure non considerate importanti in quel momento storico o gli artisti, più fuori dal coro, che non hanno fatto parte di movimenti. In questo senso, mi piace moltissimo andare a cercare proprio quelle figure che hanno spesso avuto delle vite incredibili. Molti degli artisti che ho esposto, tra cui Fini, Lepri e Clerici, ma anche Fulvia Levi Bianchi o Tiger Tateishi, sono artisti che avevano esposto con il gallerista greco Alexander Iolas. Con il tempo, molti artisti esposti da Iolas sono stati eclissati proprio perché non rientravano nella narrativa dominante della storia dell’arte costruita in quel momento. I tempi, tuttavia, sono sempre in cambiamento e il passato torna presente molto più di quanto realizziamo. Lavorare su questi progetti di riscoperta, che in realtà sono progetti di valorizzazione di qualcosa che c’è sempre stato, è stimolante e permette di comprendere più a fondo la storia dell’arte, che non può essere solo concepita come un susseguirsi di ismi.
CS: Il tuo lavoro curatoriale sembra fondarsi su una tensione tra rigore filologico e libertà immaginativa. Come costruisci le tue mostre? Quanto conta l’archivio, quanto l’intuizione? E qual è per te il limite tra ricerca storica e narrazione personale?
TC: Il lavoro inizia da una ricerca che è a sua volta stimolata da un interesse o da una curiosità per una figura storica, per un catalogo, per un libro, per un testo, per un quadro. Questo istante, questo spunto di interesse prima ancora che di creatività, è il momento chiave. Segue poi una ricerca vera e propria che spesso coinvolge anche l’archivio di riferimento dell’artista che andrò ad esporre. Il rapporto con gli archivi è fondamentale, perché permette un confronto costante e la possibilità di ricevere informazioni storico bibliografiche essenziali per garantire che la mostra abbia delle basi solide a livello filologico. Segue l’aspetto che personalmente preferisco del mio lavoro: la visualizzazione della mostra stessa. Come diceva Iolas, concepire una mostra è come realizzare uno spettacolo: ci devono essere gli attori giusti, la scenografia, il tempo e, soprattutto, la regia. Sotto questo punto di vista cerco di mantenere il più alto grado possibile di creatività, motivo per cui le mostre che abbiamo realizzato hanno spesso avuto una scenografia o un allestimento unico.
CS: Dopo Milano, hai aperto a Venezia, dentro un palazzo storico, e poi a New York con un format itinerante. Cosa significano per te questi spostamenti? Che visione hai dello spazio espositivo oggi, tra centralità urbana, esperienza estetica e mercato?
TC: Milano è stato il punto di partenza di un viaggio che mi ha portato poi anche altrove, ma rimane centralissima in tutte le attività. Proprio ora mi trovo a New York, dove abbiamo da poco aperto uno spazio temporaneo. Venezia, invece, era un sogno nel cassetto che avevo da tanti anni. Fortunatamente sono arrivato in laguna l’anno scorso in un momento storico molto favorevole per il mondo dell’arte. Ogni mese c’è una nuova apertura di fondazioni o di gallerie che rendono Venezia sempre più internazionale. Gli spazi delle mie gallerie sono molto diversi l’uno dall’altro; quindi, a seconda dei progetti che vogliamo realizzare, pensiamo a quale spazio sia il più adatto considerando ovviamente anche il calendario.
Ritengo che per avere successo sia importante dare un’impronta globale alla galleria, mantenendo però una programmazione fedele all’anima della galleria stessa. Ho scelto di aprire a New York perché quest’anno non volevo partecipare alle fiere; è stata una scelta che è andata bene, sono contento di passare del tempo qui, di conoscere nuovi collezionisti e nuovi curatori che altrimenti non avrei potuto raggiungere.
Lavorare sullo spazio galleria invece che sul concetto di fiera può ricondurre la galleria ad essere centrale per le persone, creando conseguentemente un collezionismo più preparato e meno speculativo.
CS: In un momento in cui molte gallerie si appiattiscono su modelli fieristici, hai scelto un modello più autoriale, quasi curatoriale. Come immagini la sostenibilità di una galleria indipendente oggi? E quale pensi debba essere, oggi, la responsabilità culturale di un gallerista?
TC: Non credo esista una formula unica per avere successo o quantomeno per rendere una galleria sostenibile. Ogni gallerista è diverso e ogni programmazione è differente.
Detto questo, è oggettivo come tu ben dici, che la maggior parte delle gallerie preferiscono optare per un modello fieristico a discapito di mostre, cataloghi o altri progetti. Il problema di fondo, però, dal mio punto di vista, è che il concetto di fiera, che è stata una delle forze motrici del mercato dell’arte, è diventato talmente autoimposto dai galleristi sui galleristi stessi al punto che risulta difficile valutare le alternative possibili. Nella mia realtà, invece, ho sempre sostenuto la rilevanza delle mostre, l’importanza della produzione di cataloghi e più in generale la centralità della galleria come spazio di incontro, sia culturale che di mercato.
CS: Il tuo percorso sembra intrecciare rigore e passione, storia dell’arte e una certa idea romantica del mestiere del gallerista. Che tipo di sguardo hai sviluppato in questi anni? Cosa credi di cercare, in fondo, ogni volta che apri una mostra?
TC: Sono un grande critico di me stesso e la maggior parte delle volte non sono soddisfatto di quello che faccio a livello di mostre. Una domanda fondamentale che mi pongo sempre pensando ad un progetto è: “Vorrei veramente andare a vedere quella mostra?”. A volte la risposta rimane negativa per anni finché un giorno vedo un qualcosa che mi dà una chiave di lettura diversa. Cerco quindi di impostare qualunque progetto nella maniera più fedele a me stesso e a quello che i miei collaboratori mi suggeriscono. Le mostre fatte in un determinato modo possono lasciare un segno nella storia di quell’artista, un segno estetico, un segno culturale nella più ampia accezione del termine, un segno nella riproposizione e nel riposizionamento di una figura storica, come può essere stata quella di Iolas, o di un’artista come può essere stata Leonor Fini. Non possiamo appendere solo quadri a muri bianchi…
CS: Molti dei tuoi progetti sembrano avere a che fare con il tempo: recuperare, preservare, ma anche dislocare, rimettere in circolo. Che idea hai del tempo nell’arte? È più uno strumento di lavoro, un nemico o una forma di alleanza?
TC: Hai perfettamente ragione nel dire che i miei progetti hanno a che fare con il tempo e come, nel tempo, le cose cambino. Come spiegavo prima, uno degli obiettivi del mio lavoro è anche quello di presentare artisti che sono stati dimenticati. Se questo avviene però è perché il tempo dell’arte non può essere considerato come lineare.
Ora che ci penso forse è più corretto concepire il tempo nell’arte come un oceano. Le conchiglie sono ovunque, ma talvolta non le vediamo perché sono nei fondali, altre, spinte dalle onde e delle correnti, arrivano ben visibili nella sabbia.