Curriculum Vitae – Milovan Farronato

13 Giugno 2025

Come inizia la tua giornata tipo?
Inganno il risveglio ripetendo l’esperienza due volte. Hai presente quelle albe che appaiono dal profilo di una montagna per scomparire dietro a quella seguente e quindi affiorare di nuovo? Tra il primo risveglio intorno alle sei e il secondo alle nove circa, sbrigo le faccende che altrimenti mi appesantirebbero la giornata tra le quali invoice, logistiche, disdette, nulla di concetto e soprattutto metto a bollire il brodo vegetale. Durante il residuo di sonno vivo i sogni più lucidi, quelli che ricordo con maggior cura e che spesso finiscono per influenzare le mie scelte.

Trovi mai tempo per lavorare nelle ore notturne?
Considero la vita sociale legata alle mie scelte professionali parte integrante del lavoro, quindi mi capita spesso di lavorare di sera e anche di notte, almeno due o tre volte alla settimana. Se invece ti riferisci al pensiero creativo, no temo che quello si esaurisca dopo pranzo, mentre quello organizzativo cessa bruscamente prima di cena.

Quanto tempo riesci a dedicare a te stesso in una settimana?
Abbastanza da annoiarmi, ma non considero la noia una nemica, tuttalpiù una discreta alleata.

Quale percorso formativo hai seguito e cosa ti ha dato?
Ho studiato alla Facoltà di Lettere e Filosofia di Pavia con un approccio molto classico al mio percorso di studi per poi virare improvvisamente dall’archeologia all’arte contemporanea, dal percorso accademico alla critica militante, fino ad approdare alla curatela. Ero decisamente instabile come teen a cavallo tra gli ’80 e i ’90: A Restles Subject che e’ anche il titolo di un mio recente contributo per la prima monografia dell’artista brasiliano Adriano Costa, ma anche la titolazione di un mirabile short film di Runa Islam che ho vuoto il piace di produrre ed esporre alla Galleria Civica di Modena nel 2009.

C’è stato un momento preciso in cui hai capito che l’arte contemporanea sarebbe stata il tuo ambito?
Credo sia stata una concatenazione di eventi. Di certo leggevo d’arte fin da adolescente senza tuttavia mai vederla dal vivo. Il mio interesse e’ nato per ecfrasi e poi si e’ confermato nelle prime mostre che ho visitato, ma non riesco a ricordare una vera e propria epifania. Forse una concomitanza di opere, tra le quali di certo Charlie don’t surf (1997) di Maurizio Cattelan , tanti scarichi di Robert Gober e soprattutto la sua Madonna (Untitled 1995/97). Anche le installazioni immersive di Hélio Oiticica in collaborazione con il filmmaker avant-garde Neville D’Almeida Cosmococas (1973) che credo di aver visto, per sbaglio, agli inizi del 2000 alla Whitechapel di Londra. Mentre sono certo di essermi imbattuto nel ‘99 a Brixton nelle damine libellule e mantidi e farfalle e lombrico e orchidea ricamate da Enrico David.

Se non fossi curatore, cosa ti immagini avresti fatto?
Durante il lockdown ho vissuto con un giovane designer, all’epoca in forze da Gucci, Matteo Domenichetti i cui interessi erano onnivori: appassionato di religioni, fumetto, botanica, storia della scienza, uno di quegli esseri abbastanza rari che sembrano destinati allo studio di clausura. Non credo fosse in origine dotato di una naturale inclinazione per l’estetica e poi tuttavia al seminario ha preferito il corso di Fashion Design al Politecnico per ricostruirsi un universo visivo all’altezza del proprio caos interiore. Io invece ho compiuto la traiettoria opposta: ho inizialmente piegato la mia inclinazione visiva allo studio, cercando nella teoria un contrappeso, una distanza. A volte mi chiedo cosa sarebbe successo se avessi semplicemente seguito la traiettoria che mi veniva più spontanea, se mi fossi lasciato sedurre fino in fondo e dall’inizio al complesso sistema della moda. Forse mi sarei preso troppo sul serio? Come alternativa, varrebbe la pena scoprirlo.

Come è nato il tuo approccio curatoriale?
Sicuramente in movimento, sempre per quella qualificante caratteristica dell’instabilità.
Spostare le opere nel corso della mostra e’ una prassi, non sempre condivisa, a cui non so rinunciare per l’evidente possibilità di raccontare più storie che si accavallano nello stesso spazio e nello stesso lasso di tempo. Le visioni portfolio in cammino: ricordo quelle che organizzavo quando ero in forze all’associazione Viafarini spesso al parco Sempione, o lungo il Lambro. Ma anche il quasi-simposio progettato con Paulina Oloswka Mycorial Theatre per il Fiorucci Art Trust che iniziava sempre con una raccolta di fughi nei boschi della Piccola Polonia non distanti da Cracovia. A Stromboli, l’80% degli accadimenti si e’ sempre manifestato in movimento: processioni, parate, bande, cortei e rituali negli anfratti più disperati dell’isola. Nel 2015, Mathilde Rosier e i suo due ballerini ci aspettavano in cima al vulcano, ma credo che l’arrivarci fosse già parte del copione.

Cosa ti affascina maggiormente nel dialogo con gli artisti?
La varietà, l’imprevedibilità: sono una specie con tante specifiche diverse. E non lo nego, anche la possibilità di vedermi riflesso. Ho sempre preferito l’idea di cercare corrispondenze in persone piuttosto che nelle pagine di un libro. E se non ci riesco, comunque stimola l’empatia.

Quali differenze hai trovato tra il lavorare in istituzioni e progetti indipendenti?
Direi che il primo di vincola, il secondo ti consuma. Meglio agilmente slittare tra uno e l’altro di continuo. Mi spiego meglio: lavorare per un’istituzione, anche la più illuminata, significa sempre mediare: con un comitato, con un direttore, con un ente, con un’idea di pubblico. La visione si diluisce, o si modula, per entrare in una cornice più larga. Nei progetti indipendenti, invece, la libertà è abbagliante, ma spesso effimera: puoi davvero seguire un’intuizione fino in fondo, ma su tre progetti, riesci a realizzarne mediamente solo uno e per gli altri due devi imparare a elaborare il lutto.

Come descriveresti il tuo rapporto con l’Italia nel contesto dell’arte internazionale?
Un rapporto conflittuale per quanto amorevole, soprattutto da parte mia.

Qual è la prima cosa che ti colpisce quando visiti uno studio d’artista?
Il delirio, l’anarchia e l’ordine ossessivo: aspetti spesso che coesistono.

Esiste un’identità italiana nella curatela contemporanea? Come la definiresti?
Mi piace pensare che in Italia ci sia una rete ramificata che include le periferie e i luoghi marginali capaci di offrire visioni importanti per definire l’identità di cui parli. E che ci sia l’interesse a investire in questo possibile micelio. Penso, ad esempio, alle mostre che realizza Gioele Melandri a Cotignola come quelle dedicate a Christian Holstad e a Cuoghi Corsello o all’attività espositiva di Rita Servaggio quando seguiva la programmazione di Casa Masaccio A San Giovanni Valdarno. Al progetto Panorama di Italics e alle esposizioni del MActe di Termoli.

Un luogo espositivo che consideri sottovalutato ma di grande potenziale?
In questi ultimi anni, in cui mi sono dedicato prevalentemente alla scrittura, ho deciso di imbarcarmi in un viaggio atipico: una crociera transatlantica, una di quelle tratte stagionali che, due volte l’anno, trasferiscono le grandi navi da Genova a Rio de Janeiro, seguendo la migrazione del sole dall’estate del nord a quella dell’emisfero sud. Ventuno giorni tra Mediterraneo e Oceano Atlantico, con una dozzina di scali diversi — brevi, fulminei, ma affascinanti. La nave era semideserta, quasi sospesa nel tempo. E proprio in quell’intervallo di sospensione, ho iniziato a immaginare una nuova forma di istituzione: un contenitore in movimento, un organismo itinerante che attraversa continenti, accoglie artisti, si confronta con pubblici molteplici e risponde ai luoghi solo nel tempo in cui li sfiora. Una nave-mostra, una nave-residenza, una piattaforma liquida di interazioni, più simile a un romanzo di Joseph Conrad che a un white cube. Non so se esista già, non credo.

Come vedi il futuro delle pratiche curatoriali nei prossimi dieci anni?
Ho molto apprezzato una risposta di Chus Martínez a Jens Hoffmann nella pubblicazione Ten Fundamental Questions About Curating (2013), in cui lui le chiedeva quale fosse il futuro dell’arte e lei, con quella lucidità affilata che le è propria, rispondeva che il futuro dell’arte era un problema dell’arte, non suo. Mi piacerebbe rispondere allo stesso modo, ma temo che tra dieci anni non avrò ancora conquistato l’età pensionabile e quindi, sì, la questione continuerà a riguardarmi. Non ho uno statement specifico né una previsione puntuale, ma credo che, a differenza di molte altre professioni che nei prossimi anni scompariranno o verranno assorbite da altri sistemi, la curatela difficilmente si estinguerà. È una prassi talmente eterogenea da potersi adattare, infiltrare, persino prosperare in contesti molto diversi da quelli per cui era stata pensata. È già così in fondo: il curatore non è più solo una figura da museo o da istituzione culturale. Inizia a essere presente in fondazioni bancarie, in ambiti scientifici, in progetti educativi trasversali. E perché non anche in un ufficio stile, in un centro di ricerca, in un’impresa sociale? Non perché sia di moda, ma perché ha acquisito, nel bene e nel male, una funzione espansiva, che si presta ad essere riformulata, ibridata, talvolta anche svuotata. Ma finché continuerà a porre domande invece che cercare risposte, credo che il suo futuro sarà ancora prospero.

Un piatto che non puoi fare a meno di ordinare quando lo vedi in menu?
Risotto alla zucca, raro da trovare nei menù, forse perché ritenuto troppo semplice, poco audace, certamente non elegante, ma che per me incarna una piccola epifania. Perché, a ben vedere, si tratta dell’unione di due ingredienti che, singolarmente, non sceglierei mai. Il riso, non mi affascina, fatta eccezione forse per i risi e bisi alla veneziana. La zucca, poi, mi è sempre risultata quasi respingente: al forno con rosmarino, le vellutate dense e dolciastre, i ravioli farciti che virano verso la stucchevolezza. Tutti piatti che, se non per educazione, avrei lasciato intatti nel piatto. Eppure, il riso con la zucca produce una magia. È come se la somma di due elementi che mi disturbano generasse, paradossalmente, un piacere inatteso, un equilibrio misterioso. Se poi il piatto fosse presentato con una cura in più, non so una salsiccia sgranata ben rosolata, un’ombra di gorgonzola dolce appena fusa a mantecare, un profumo aromatico che spezzi la monotonia, allora mi sembrerebbe perfetto, con quella misura di comfort rustico e sapienza compositiva che mi fa pensare a certe opere di Francis Alÿs, dove il gesto minimo, ripetuto e imperfetto, apre visioni inaspettate.

Ti piace cucinare o è più una necessità?
I fornelli in casa mia sono quasi sempre accesi. Qualcosa bolle, sobbolle, cuoce lentamente in forno o gorgoglia sul fuoco. Potrei cucinare anche solo per il profumo. Mi basta che si sprigioni quell’aroma denso che avvolge le stanze come un incantesimo. Ho sempre qualche erba da parte, una tisana che infondo, un brodo che si prepara piano. Il lavandino che scorre accanto al calore del fornello: l’incontro tra acqua e fuoco è molto stimolante. È in cucina che lavoro. La cucina è il mio studio. Mentre le verdure s’inzuppano, le cipolle si inteneriscono o le salse si addensano piano, li accanto scrivo: un testo, un’email, un’idea. Qualcosa arriva.

Un dolce a cui non sai resistere?
Sono diventato diabetico e forse per questo presagio non ho mai amato tanto i dolci che ho sempre sacrificato per un bicchiere di vino in più. Ma tra quelli occasionalmente assaggiati il mio preferito resta il Montebianco e in seconda posizione la Pavlova al rabarbaro.

Un libro che ti ha cambiato la prospettiva?
Nel 2019 ho già risposto a questa domanda e ancora oggi confermo il lungo monologo esistenziale di Clarisse Lispector: Agua viva. Oggi però aggiungerei anche La zia Giulia e lo scribacchino di Vargas Llosa che avrei preferito leggere prima del un flusso interiore, quasi senza trama di Lispector. Entrambe sono confessioni mascherate. Se leggi La zia Giulia dopo Agua Viva puoi avvertire un contrasto stridente ma anche un’eco lontana: entrambi parlano di scrittura come condizione vitale, e di come il raccontare, o il dire, possano salvare o perdere una persona. Uno lo fa ridendo , l’altro tremando. La successione inversa invece favorirebbe un passaggio più fluido dall’esteriore all’interiore, dalla forma alla vibrazione. E’ come iniziare con l’inchiostro e finire con il respiro.

Un film che hai rivisto più volte?
La signora ammazzatutti (1994) o in inglese Serial Mom di John Water.

Una serie TV che segui con passione?
I racconti dell’ancella, ma anche American Horror Story.

Un artista che ti ha particolarmente influenzato?
Sicuramente Katharina Fritsch a cui riconosco la capacità rara di far convivere gli opposti, contenere i paradossi senza risolverli, senza neutralizzarli. Il fuoco che ha come inconscio l’acqua. Il simulacro che, nel suo diventare essenza, supera la rappresentazione. Il suo lavoro è simultaneamente astratto e figurativo, ieratico e popolare, sacro e profano. Basta pensare a Regen, quel sonoro quasi mistico in cui la pioggia diventa ritmo mentale e crepitio di un focolare, o alla celebre Madonna di Lourdes installata per la prima volta nella piazza di Münster, a grandezza naturale, sospesa tra sinagoga e un centro commerciale, omaggiata con fiori e profanata da chi la voleva rubare. In lei, più che in altri, l’alchimia delle opposizioni si realizza, si toccano e si fondono, con una grazia che ha il rigore del dogma e l’ardore dell’eresia. La cito spesso anche in testi dedicati ad artisti molto lontani da lei. Ho avuto la fortuna di collaborarci più volte e tuttora sto progettando un’altra sua mostra.

Una canzone che ti ritrovi spesso a canticchiare?
Hai presente la protagonista della già citata serie The Handmaid’s Tale quando e’ costretta a vegliare per mesi in ginocchio ai piedi del letto di una compagna in coma con una gravidanza complicata? Nella sua mente risuona la canzone di Belinda Carlisle , Heaven is a Place on Earth. Quando mi sale la pressione anch’io la canticchio nella mente.
Altrimenti mi capita di avere una canzone specificatamente per una persona. Ad esempio, in questo periodo, sto lavorando a tanti progetti con Iva Lulashi, che e’ anche la mia frequente compagna al Burraco Society di Paride Vitale e Maurizio Cattelan. Quando la vedo non riesco a fare a meno di intonare Minuetto.

Le app che consulti più frequentemente?
Preferisco dirti quelle che non ho mai frequentato: grindr, tinder, Hinge, bumble , hornet e tutte le loro amiche.

C’è qualcosa che usi oggi che secondo te tra cinque anni sarà obsoleto?
L’intuito per capire la mia gatta perché potrò avvalermi di una traduzione Ai istantanea.

Qual è stata la decisione più impulsiva che hai preso?
Il 12 marzo del 2020 avevo appena concluso una cena nel mio nuovo appartamento a King’s Road, a Londra, avevo cucinato la pasta all’assassina, la preferita di Chiara Fumai. Ospiti: Goshka Macuga, Sagg Napoli, Federico Campagna e Gregoire Schnerb, cena intima tra amici, l’ultima prima che tutto cambiasse. Intorno all’una di notte, rimasto solo da poco, ho avvertito un’urgenza istintiva che non saprei nominare. Senza pensarci troppo, ho deciso che volevo tornare in Italia. A casa. Anche se da poche ore la Lombardia era diventata ufficialmente zona rossa. Volevo tentare il ritorno. Andai all’aeroporto, quello più vicino. Tutti i voli per Milano erano cancellati, anche per Bologna, ne restava uno solo per Napoli intorno alle 9. Ho comprato il biglietto e sono partito. Non immaginavo che avrebbe significato lasciarmi tutto alle spalle.

Se dovessi identificarti con un animale, quale sarebbe e perché?
La piovra, una creatura molteplice, sfuggente, probabilmente queer per natura. Ha tre cuori, cambia forma, colore, consistenza. È tattile, abissale, solitaria ma non disconnessa. Vive nell’ombra, ma sa occupare lo spazio. Sa rigenerarsi, abitare la metamorfosi. Nessun altro animale incarna così bene il pensiero non lineare, la sensibilità distribuita, la strategia mimetica e il desiderio non codificabile. La piovra è un simbolo di resistenza fluida e intelligenza laterale, di femminilità nel senso più profondo e primitivo. E’ un’icona ancestrale che appartiene più al sogno che al giorno. Se mi ci associo è solo perché, come lei, non mi interessa rassicurare, ma tracciare traiettorie impreviste. E perché, come lei, non mi interessa incedere, ma tuttalpiù estendermi.

Il tuo segno zodiacale influenza in qualche modo le tue scelte?
Assolutamente si , sono un capricorno ascendente ariete, della prima decade, nato il giorno di Natale. Un po’ un incubo, ma lo indosso bene.

C’è un’attività che proprio non sopporti dover fare?
Andare in palestra, una forma di manierismo che non mi rappresenta. Ma conservo annualmente la tessera sperando prima o poi di cambiare idea.

Ti è mai capitato di vivere un momento particolarmente imbarazzante in pubblico?
Certamente ma per fortuna la mia memoria e’ lacustre e gli episodi spiacevoli sono i primi ad essere obnubilati nel tenebrore della mia coscienza semiaddormetanta o semisveglia.

Un luogo che ti ha sorpreso più di quanto ti aspettavi?
Gerusalemme, e’ stato l’unico luogo dove ho sperimentato delle allucinazioni. Temo si trattasse di qualcosa molto prossima a una crisi psicotica. Vedevo cose che non erano reali.

La persona più creativa che hai incontrato nella tua vita?
Ne ho incontrate tante e non amo le gerarchie quindi mi e’ veramente impossibile rispondere a questa domanda. Se però fosse formulata chiedendomi chi e’ la persona più creativa che mi viene in mente in questo istante di getto, risponderei che in questo istante penso a Roberto Cuoghi.

Ti capita di parlare da solo quando sei concentrato sul lavoro?
Se voglio sentirmi pronto per un incontro pubblico devo ripetermi la ‘parte’ a voce altra. Era una prassi ricorrente anche per la preparazione degli esami universitari. E’ un esercizio che mi aiuta anche a capire. Quindi parlo da solo spesso, ma intenzionalmente non per distrazione o immedesimazione involontaria.

Il tuo posto del cuore nel mondo?
Il Nilo

Che tipo di vacanze preferisci?
Da quando ho come compagna di viaggio la mia gatta, ormai quattro anni, decisamente sedentaria. Ho iniziato a risalire la corrente e a sedimentare le mie estati in montagna, lontano dal mare e dal caldo.

Se dovessi portare tre oggetti su Marte, quali sceglieresti?
La prima, senza esitazioni, è Inferno, la mia gatta, certo lei non e’ un oggetto, ma senza di lei rifiuterei il cortese invito. La seconda un abito di Alessandro Michele, precisamente quello della sfilata pre-Covid, con il backstage chiuso dentro una giostra rotante. Un vestito ottocentesco, azzurro e nero, gonfio, teatrale, impossibile da piegare o da appendere. Me lo sono trascinato da trasloco in trasloco come fosse un relitto o un presagio, e lo porterei anche su Marte come cambio d’abito, perché — a meno di partire già vestito come un’apparizione — qualcosa per trasformarsi, per apparire altrimenti, mi sembra indispensabile. E poi, se non ricordo male e’ proprio Georges Bataille, credo in La notion de dépense (1929), parlava dell’importanza per lo sviluppo della società di prevedere una quota di perdita, di dissipazione, di effimero. Il barocco lo sapeva bene: ci sono apparati inutili che sono necessari, ingombri che sono vitali. Ecco, portare su Marte questo abito così esagerato, così impraticabile, per me significherebbe proprio questo: incarnare un gesto simbolico, l’ostinazione di un’eccedenza, l’orgoglio del superfluo come forma di resistenza. Porterei poi un malismano e talismano come ultimo compagno di viaggio, qualcosa che mi porti fortuna e che contestualmente porti sfortuna a quelli in cui dovessi imbattermi di ostili. E a questo punto, tra gli oggetti che credo posseggano questa potenzialità, sceglierei dalla mia collezione una scultura collage di Paulina Olowska che si intitola Spell Shell. Fa parte di una serie di grandi conchiglie in ceramica, accompagnata da un’immagine ingrandita di una donna tratta da “Viva”, rivista pornografica femminista californiana del ’73, stesso anno in cui sono nato, fondata da donne per le donne, sorella spirituale di “Penthouse”, ma con uno sguardo più libero, meno codificato. La donna appiccicata alla mia Spell Shell mi somiglia da giovane: capelli neri, lunghi, lisci, fisico androgino, abiti succinti, come quelli che ho portato in adolescenza e che, in un certo senso, mi porto ancora dentro.

Se potessi lanciare un messaggio in bottiglia, cosa ci scriveresti?
Felice ora di citare un altro mio cavallo di battaglia: prenderei in prestito la frase di un neon di Liliana Moro: L’uomo che guarda non farà il tifo contro. Mentre sul retro dello stesso foglietto mi avvalgo del titolo di un quando di Guglielmo Castelli: Honni soit qui mal y pense

Come vorresti essere ricordato tra cinquant’anni?
Essere al centro di un grande equivoco

Come ordineresti per importanza: denaro, amore, sesso, fama, immortalità?
Il sesso l’ho praticato con partecipazione per molto tempo. Ma a dirla tutta, non l’ho mai davvero capito. Tutto quell’affanno, no, oggi lo metterei all’ultimo posto. La fama, pure, mi sembra un concetto sopravvalutato. La notorietà è volatile, spesso mal distribuita, e lascia il tempo che trova. La metto in penultima posizione. L’immortalità non è mai stato un mio obiettivo consapevole. Però, forse a livello subconscio, l’idea di vincere la morte, di lasciarsi dietro qualcosa che duri potrebbe avere un suo fascino. Quindi le darei un posto centrale, a metà classifica. Restano il denaro e l’amore. Sono sempre stato innamorato, e credo che lo sarò ancora. L’amore è una specie di leitmotiv necessario: non tanto quello di coppia, ma quello più ampio, che si manifesta come comunione di intenti, come sorellanza, compagni di viaggio con individui anche molto diversi. Oggi tuttavia metterei il denaro al primo posto. Ho sempre vissuto al di sopra delle mie possibilità, e ora mi piacerebbe, semplicemente, avere delle possibilità.

C’è un’abitudine che sai non essere proprio salutare ma a cui non rinunci?
Inventare bugie. Quando i discorsi si logorano o si fanno inutilmente pesanti o scontati, mi piace virare in storie inedite. Le so raccontare bene, assolutamente irreali, ma potabili. In fondo per rendere una verità più credibile la devi mescolare con la bugia, questo sosteneva sia Kafka che Dostojevski.

Hai animali domestici?
Ampiamente menzionata, Inferno di Pizzo Freddo che e’ la frazione del paese in Oltrepo dove l’ho trovata. Anche se il mio primo animale domestico e’ stato Roberto , il furetto.

Hai tatuaggi o segni particolari?
Sono i segni degli infortuni e delle risse.

Sei appassionato di moda vintage?
Si, decisamente, ma più quella delle bancherelle dei mercati sgangherati sul ciglio delle strade che quello delle boutique specializzate.

Un designer che apprezzi particolarmente?
Gia’ menzionato Alessandro Michele, ma anche Demna
.
Un profumo che ti identifica?
Il Gelsomino puro mi ha sempre provocato uno stato di febbricitante allergia che si riverberava sul mio volto in nuance prossime al polline o alla ruggine sopratutto intorno agli occhi. Effetto che per un po’ di tempo e’ stato il mio unico trucco. Purtroppo ora non me lo posso più permettere, cioè ho bisogno di un effetto meno spontaneo e più ricercato se voglio apparire come mi piace apparire. Quindi ho smesso di instigare reazioni allergiche cutanee per produrmi effetti estetici graditi. Comunque, il profumo che mi identifica di più resta quello del rossetto Paloma Picasso, mi ricorda mia nonna.

Porti con te qualche oggetto portafortuna?
Di trasloco in trasloco, ho sempre ricomposto nello stesso modo quattro opere della mia collezione, disposte in prossimità l’una dell’altra: un piccolo demone azzurro che si masturba dipinto da Camille Henrot; l’ossessione impressa nello sguardo di un personaggio in un collage di Goshka Macuga; uno specchio infranto in ossidiana di Prem Sahib e un serpente nero con doppia ansa di Katharina Fritsch. Sono affissi alla parete al di sopra di una carta da parati di Paolo Gonzato, che alterna volti generati digitalmente — parte di un progetto di dissidenza digitale di Matteo Domenichetti — a rombi bianchi lasciati vuoti. Dentro quei rombi senza volti che non esistono allineo a chiasmo i mie quattro simulacri portafortuna: in alto a sinistra lo specchio, alla sua destra il volto, al di sotto il serpente , mentre il demone resta alla sinistra di quest’ultimo. Non riesco a eludere da questa composizione!

Non è un’intervista. Non è un profilo.
È un autoritratto sparso, in forma di domande.
Un modo per perdersi dentro le persone, nei loro gesti, nei loro oggetti, nelle loro ossessioni.
Una mappa del visibile e dell’invisibile.
Un curriculum emotivo, estetico, personale pensato da Cristiano Seganfreddo.
In ordine libero, come il pensiero.

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