Il tuo piatto della memoria?
I ravioli di ricotta e spinaci conditi con burro e parmigiano di mia madre.
Hai mai desiderato essere un’opera d’arte?
Certo! L’opera è qualcosa che fai con le tue mani, la tua mente, le tue passioni. L’ho tanto desiderato che forse un po’ ci sono riuscita. #iosonoilmiomedium
Qual è il dettaglio di stile che ti fa impazzire?
Accavallare le gambe con una magnifica gonna a pieghe.
Hai mai avuto una visione?
Una tigre viva in miniatura che attraversava il letto dei miei genitori. Ho cercato di ritrovarla per molti mesi, ma non è più successo.
Qual è il tuo gioiello rituale, quello che non togli mai?
L’orologio.
Se fossi un tessuto, quale saresti?
Il fresco di lana, la lana secca, merino, stupenda.
Qual è il gesto artistico che ti ha cambiato il corpo?
Il desiderio di estenderlo, di ridefinirne i confini.
Hai mai pianto davanti a un’opera d’arte?
Preferisco ridere che piangere davanti a un’opera d’arte. Mi piace sentirmi toccata, provocata, coinvolta, ma anche respinta.
Qual è la tua stagione artistica interiore?
Sempre quella che deve ancora arrivare.
Cosa ti commuove anche se non vuoi?
La bellezza quando la riconosco. E oggi mi commuove sempre di più. È rara.
Qual è il tuo profumo, e quale artista potrebbe indossarlo?
Rovescierei la risposta: non amo i profumi ma proverei volentieri un profumo d’artista finché resisto, anche se non mi piace.
Il tuo primo ricordo estetico nitido?
Ricordo tutto quello che non mi piaceva già a due o tre anni. I bottoni, i dettagli del corpo femminile, le lunghe mani, le gambe slanciate, le caviglie sottili.
Ti capita di parlare con i quadri?
Certo, parlo ai quadri con il pensiero.
Con quale stilista ti senti davvero affine, poeticamente?
Charles James, Rei Kawakubo, Galliano, McQueen, Margiela… dopo Balenciaga, hanno trasformato l’abito in uno statement.
Il tuo libro-talismano? E uno che non sei mai riuscita a finire?
Off the Wall di Calvin Tomkins. Non ho finito L’Uomo senza qualità di Musil, ma lo trovo geniale.
Se potessi far curare una mostra sulla tua vita, da chi la faresti curare?
Dal mio ologramma.
Ti capita mai di parlare con te stessa ad alta voce? E in quale lingua?
Spesso. Quando vivevo a New York, in inglese. A volte ancora oggi.
Ti sei mai sentita parte di un’opera?
Sempre. Quando scrivo, quando parlo, quando poso.
Qual è il film che ti ha insegnato l’eleganza?
Le notti di Cabiria, 2001: A Space Odyssey, Poor Things. Eleganza è anche errore, difetto, orrore.
Ti ricordi l’odore del tuo primo atelier di moda?
L’odore del talento e delle idee mescolato a quello dei materiali. McQueen e Galliano.
Quanto ti vesti per il mondo e quanto per te?
Un equilibrio tra travestimento e rassicurazione personale.
Mini cavalli: proiezione, tenerezza, potere. Cosa sono per te?
La mia idea di eleganza, bellezza, grandezza. Bellissimi anche se piccoli.
Qual è la cosa che ti fa restare a lungo davanti a un’opera?
Il mistero, la miseria, l’avventura. Non dev’essere paracula.
Hai mai visto qualcosa di talmente bello da restare in silenzio per ore?
La vita.
L’artista che secondo te ha raccontato meglio la sensualità?
Pierre Klossowski. Svelato e velato.
A chi manderesti il tuo messaggio in bottiglia?
Al Babbo Natale degli abissi.
Il tuo rapporto con la casa: la vivi, la curi o la costruisci come un set mentale?
Un’opera, tagliata su misura. Un abito di architettura.
Qual è il tuo segno zodiacale? E ci credi davvero?
Acquario. Proiettato nel futuro. Mi piace l’idea di corrispondergli.
L’abito che ti rappresenta come un autoritratto?
Un organzino blu di Comme des Garçons. Amo il blu e il démodé.
Il tuo suono-feticcio?
La no wave. Abrasiva, improvvisata.
Cosa pensi del concetto di “musa”?
È una responsabilità. Un modus vivendi.
C’è un artista che senti fratello o sorella, anche senza esservi mai parlati?
No . Sarebbe mal riposto il mio concetto di fratellanza.
Moda e arte: due linguaggi o un unico istinto?
Due linguaggi. Credere il contrario è un errore.
Se dovessi scegliere un solo artista con cui cenare, chi sarebbe?
Francesco Vezzoli. Sempre.
Cosa cerchi davvero nell’arte?
Una bellezza affine. Un conforto ideale.
Hai mai scritto un testo pensando a un abito?
Sempre. Sono una sarta della parola.
Cosa ti commuove nel design, se ti commuove?
La funzione rinnovata. Il legame tra creatività e impresa. L’Italia del progetto.
Cosa pensi quando osservi un’opera che ti guarda?
Che preferirei mi ignorasse.
L’ultima volta che l’arte ti ha fatto ridere?
Ogni supercazzola dei Canemorto.
Qual è la tua ossessione visiva più lunga?
La trama: tela, tessuto, maglia.
Hai mai avuto paura che l’arte smettesse di emozionarti?
Spessissimo. Ogni due per tre.
Quando sei sola, cosa fai che non diresti a nessuno?
Non lo dico a nessuno.
Hai mai perso qualcosa di importante per amore dell’arte?
Forse no. L’arte mi ha arricchita. Forse troppo.
Qual è l’opera che ti abita, anche se non la possiedi?
Deve contenermi tutta. Sol LeWitt, Bruce Nauman, Barbara Kruger…
Il tuo capo più amato, e quello che hai perso per sempre?
Ora: una gonna a pieghe grigia di Prada. Persa: una di Rei Kawakubo, consumata dal tempo.
Che musica ascoltavi quando scrivevi di arte per la prima volta?
Mai musica. Silenzio assoluto.
Il tuo drink preferito?
Vino bianco secco e ghiacciato.
Hai mai avuto l’impressione che un quadro ti stesse aspettando?
Sì. Di solito è piccolo. E lo porto a casa.
La città in cui ti senti più vera?
Bologna. Dove sono nata.
Preferisci i musei vuoti o le case piene?
Case piene, sempre. Anche se non hanno molto senso
Non è un’intervista. Non è un profilo.
È un autoritratto sparso, in forma di domande.
Un modo per perdersi dentro le persone, nei loro gesti, nei loro oggetti, nelle loro ossessioni.
Una mappa del visibile e dell’invisibile.
Un curriculum emotivo, estetico, personale pensato da Cristiano Seganfreddo.
In ordine libero, come il pensiero.